La via italiana all’Open Innovation

Domenica 2 luglio, Nòva ha deciso di fare il punto sull’implementazione dell’Open Innovation in Italia.

Guido Romeo ha curato due pezzi. Il primo analizza il caso Catapult che dagli UK sta facendo scuola come nuovo approccio all’incubazione e accelerazione. Il secondo fa il punto sulle iniziative del MISE (contamination lab e competence center).

Io vi propongo il resoconto di una mia (lunga) intervista con Jean David Malò, Direttore di Open Science & Open Innovation per la DG Research della Commissione.

Inoltre, ecco qui di seguito il testo del mio pezzo di apertura scritto insieme a Luisa Caluri, che oltre a darmi una mano con questo blog è anche (e soprattutto) studentessa del Master MAIN (Scuola Sant’Anna e Uni Trento). Per dare l’idea delle tante diverse forme che l’Innovazione Aperta può assumere, illustriamo alcuni casi italiani: Barilla/Esselunga, Technogym e VisLab, mettendo l’accento su tre concetti al centro di questi esempi: trasferimento tecnologico, empatia con gli utenti, complementarietà delle competenze.

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La via italiana all’open innovation
L’uso di tecnologie e idee esterne all’azienda richiede un’organizzazione aperta.
C’è chi passa dalla teoria alla pratica. Anche in Italia
«Non tutte le persone più intelligenti lavorano in una sola azienda». Qualsiasi strategia di open innovation si sviluppa partendo da questa idea. Henry Chesbrough, nel coniare il termine, evidenzia che la riduzione del time to market e la necessità di integrare tecnologie distanti dal business aziendale rendono fondamentale l’adozione di questo paradigma “aperto”, che porta alla combinazione tra competenze interne e risorse esterne.
E in Italia, come si è passati dalla teoria alla pratica? Nel nostro paese l’idea di open innovation è stata declinata in tanti modi, valorizzando le diverse eccellenze industriali e non solamente in contesti high-tech. Proponiamo qui l’analisi di tre casi, ognuno ricollegabile ad una parola chiave che lo caratterizza, che insieme delineano quella che potremmo definire la “via italiana” all’open innovation.
La prima parola chiave è «trasferimento» e ci porta nei laboratori di VisLab, azienda spin-off partecipata dall’Università di Parma, fondata e diretta dal professor Alberto Broggi. La tecnologia al centro di questa storia parte dai lavori di Broggi e del collega Massimo Bertozzi (co-fondatore, tutt’ora coinvolto nelle attività dell’azienda) che nel 1998 pubblicano un articolo di grande successo su Ieee. Nei trent’anni successivi i due, affiancati da un crescente gruppo di ricerca ma con poche risorse finanziarie, sviluppano soluzioni a supporto dei veicoli driverless. Nel 2015 si rende necessario un cambio di passo. Ormai i grandi player dell’Ict e dell’automotive si sono affacciati con enormi disponibilità di investimento alle tecnologie presidiate da VisLab: diventa necessario pensare a nuove alleanze per salvaguardare il vantaggio tecnologico accumulato. Su impulso del Rettore dell’Università di Parma Loris Borghi, nel 2015 si costituisce una task force – coordinata dal Professor Gino Gandolfi – per disegnare i contorni di un processo di trasferimento della tecnologia dall’università al mercato. Il percorso si completa a fine giugno 2016 con la vendita di VisLab alla californiana Ambarella, leader mondiale per le tecnologie per la compressione delle immagini, per 30 milioni di euro e un piano di stock options per mantenere coinvolti i 38 ricercatori. Il trasferimento è di tecnologie ma non di cervelli, infatti dopo l’acquisizione, VisLab non si trasferisce nella Silicon Valley, ma dà vita a Parma al centro di eccellenza VisLab Ambarella. L’Università monetizza la sua partecipazione, ottiene cinque borse di Dottorato e instaura una nuova partnership industriale.
La seconda parola chiave, «complementarietà», ci porta in Technogym, leader italiano per le attrezzature da sport indoor. Fondata da Nerio Alessandri nel 1983, l’azienda ha centrato la sua offerta su prodotti innovativi per l’industria del wellness. A un’impostazione prodotto-centrica è stato nel tempo preferito un modello di business caratterizzato da un’offerta che mette al centro soluzioni che integrano prodotti, servizi e contenuti sia per i centri wellness sia per le case degli sportivi. È proprio in questo passaggio a soluzione/piattaforma che si è palesata l’opportunità di complementare gli sforzi interni di ricerca e sviluppo con un processo di acquisizione di tecnologie e soluzioni esterne.
Oggi Technogym impiega 200 ricercatori (il 10% della sua forza-lavoro), ma ha anche incubato una ventina di startup, il cui contributo è andato a perfezionare l’offerta delle diverse proposte sviluppate internamente. Il risultato di scouting, collaborazioni e acquisizioni è stato duplice, da una parte una riduzione del time to market, e dall’altra un ampliamento del portafoglio tecnologico anche in ambiti tecnologici lontani dalla propria expertise, ma complementari ad essa.
Il terzo caso evidenzia il ruolo dell’idea di «empatia» nell’Open Innovation 2.0. Il lancio dei Legumotti Barilla, distribuiti in esclusiva da Esselunga da aprile 2017, è il risultato di un percorso di co-sviluppo tra le due aziende. Una volta identificato il settore dei legumi e cereali come un ambito in forte crescita non adeguatamente presidiato, Barilla ed Esselunga hanno deciso di lavorare insieme con il Professore Matteo Vignoli di UniMoRe e di adottare la metodologia del Design Thinking, ideata dall’Università di Stanford. L’applicazione di questo approccio, già noto alla divisione ricerca e sviluppo della Barilla, in un contesto che coinvolge produttore e distributore e porta a realizzare un processo di testing e prototipizzazione che va oltre l’indagine di mercato tipica. Andando ad interagire con i consumatori nei punti vendita si riesce ad instaurare con essi un dialogo diretto che in modo empatico fa cogliere il bisogno e coinvolge direttamente l’utente nelle diverse fasi di co-progettazione. Il team congiunto ha progettato e testato circa 45 prototipi ed è arrivato a portare il prodotto sul mercato in solo un anno di sviluppo, di cui tre mesi di design thinking. Un approccio così “aperto” è esemplare per il largo consumo e funge da apripista per altre collaborazioni tra produttori e distributori.
Trasferimento tecnologico, complementarietà delle conoscenze ed empatia con l’utente sono tre elementi che abbiamo riscontrato in questa prima parziale rassegna dell’innovazione aperta. Più per caso che per scelta tutte e tre sono storie incentrate sull’Emilia Romagna. Una prima tappa di un viaggio ideale alla ricerca delle pluralità di forme con cui si concretizza l’Open Innovation nel nostro paese: tanti altri casi, in settori di diversa intensità tecnologica, aspettano di essere raccontati.
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Alberto Di Minin
Luisa Caluri