Marco Alberti racconta l’Open Diplomacy: strumento di collaborazione pubblico-privato

“Nei processi di contaminazione tra pubblico e privato, non serve parlare di best practices, in quanto le migliori pratiche di oggi hanno poco tempo per consolidarsi in un mondo tanto veloce come il nostro. È invece più utile parlare di next practices, in cui la collaborazione non è più limitata al settore pubblico o a quello privato – così come è stato per molto tempo – ma dove le opportunità di cooperazione aprono nuovi orizzonti”.

È con questa affermazione, che poco meno di un anno fa Marco Alberti coglieva l’attenzione dei miei studenti dell’Istituto di Management della Scuola Superiore Sant’Anna.

Alberti, corporate diplomat con più di vent’anni di esperienza lavorativa nell’intersezione tra settore pubblico e privato, pensa alla propria carriera come a un progetto imprenditoriale, che per fiorire necessita di contaminazione: per questo il suo percorso professionale è costituito da un mix di esperienze nell’ambiente aziendale, nel settore pubblico e nelle rappresentanze diplomatiche (ricordiamo gli anni passati tra il Ministero degli Affari Esteri, l’Ambasciata Italiana di Buenos Aires e il Consolato Italiano di New York), nonché nel settore privato (dal 2012 ha ricoperto infatti il ruolo di International Institutional Affairs Officer per Enel). Dal settembre dell’anno scorso Alberti è il nostro Ambasciatore in Kazakhstan, paese interessantissimo, crocevia di scambi e partner commerciale fondamentale per l’Italia nell’ambito dell’Oil & Gas.

In questa sua missione, Alberti ha portato la convinzione della necessità di far collaborare pubblico e privato, in una sua recente intervista, l’Ambasciatore ha ricordato che il 2022 segna i 30 anni di relazioni diplomatiche tra Italia e Kazakhstan, che le prospettive di collaborazione sono tante, e che bisogna impegnarsi per portare a casa risultati concreti. Utile instaurare rapporti di collaborazione in cui non vi siano interessi separati raggiungibili con un mezzo comune, ma un obiettivo comune per il quale i due settori pensino e si allineino in maniera strategica. Un esempio sicuramente conosciuto a molti è quello della United Nations 2030 Agenda, in cui l’ONU ha corrisposto un modello di crescita generale, poi integrato dalle operazioni di aziende di tutto il mondo che si impegnano per adeguare le loro strategie di crescita con i Sustainable Development Goals, i 17 obiettivi che si prefiggono di “ottenere un futuro migliore e più sostenibile per tutti”.

Agli Studenti della Laurea Magistrale MAIN, Alberti aveva sottolineato anche che a volte le  partnership tra pubblico e privato non funzionano, non tanto per la mancata volontà di instaurare un rapporto di valore, quanto per un’inefficace fase preparatoria della collaborazione stessa. Spesso, infatti, vi sono casi in cui le aziende decidono di approcciare mercati esteri senza prima informarsi sulla regolamentazione circa l’entrata di società straniere e comunicare le loro intenzioni alle istituzioni del paese destinatario. Il processo di internazionalizzazione, però, necessita di un rapporto consolidato tra azienda e istituzioni – nazionali o straniere a seconda dei casi – affinché ogni stakeholder coinvolto sia in grado di aiutare l’azienda secondo le proprie funzioni. Per evitare possibili disagi tra aziende e istituzioni, e agevolarne invece la collaborazione, è necessario abbandonare pregiudizi e stereotipi. Come ci ricorda Alberti, “il fatto che il settore privato non voglia lavorare con il settore pubblico è un pregiudizio ed è falso: il settore privato cerca valore, e un’istituzione pubblica che lavora bene lo crea”.

Ed è proprio qui che subentra il ruolo del diplomatico aziendale. Il sistema italiano ha riconosciuto e accolto l’idea che, affinché vi sia professionalità manageriale nel settore pubblico, è necessario inserire i cosiddetti civil servant in società private. A questo proposito, lo Stato italiano ha promulgato una legge (15 luglio 2002, n. 145) che autorizza scambi di personale tra enti pubblici e privati, attraverso i quali si cerca di incoraggiare lo scambio di conoscenze, competenze e idee. “Se vogliamo integrare al meglio il sistema nazionale nelle strategie e nelle operazioni delle aziende, c’è bisogno di persone che pensino in entrambi i modi: da pubblici e da privati”, afferma Alberti.

Tornando alla figura del corporate diplomat, Alberti descrive brevemente le tre principali attività che avevano caratterizzato il suo lavoro prima del nuovo incarico come Ambasciatore: supporto, risoluzione e connessione. Il diplomatico aziendale è prima di tutto una figura di supporto ai processi di internazionalizzazione e diventa fondamentale nel momento in cui un’azienda non ancora presente in un Paese deve instaurare rapporti con il territorio. Nel caso particolare di Enel, inoltre, la società operante nel settore energetico è soggetta a forti regolamentazioni: avere una figura specifica e competente negli affari pubblici dà un valore aggiunto all’immagine dell’azienda quando questa si presenta ai mercati esteri e può facilitarne l’entrata. In secondo luogo, “le aziende hanno problemi, e fare business è anche – e soprattutto – risolvere problemi. Quando si presenta qualche tipo di problema con le istituzioni”, il diplomatico e il suo team si impegnano “per trovare la soluzione più veloce ed efficace”. In ultimo, il corporate diplomat è responsabile della connessione tra l’impresa e il sistema istituzionale e dell’allineamento tra la strategia della stessa e le policy in essere. In quest’ottica, è importante esplorare le opportunità di cooperazione tra pubblico e privato, così come gli effetti che tali progetti possono avere. Un esempio di estrema attualità è dato dall’impatto incontrastabile che la transizione energetica ha e avrà sulla geopolitica: in quanto diplomatico, sottolinea Alberti, è stato suo dovere rendere l’azienda consapevole dell’importanza di avere “una transizione non solo veloce, ma anche giusta”.

Ispirandosi alla definizione di open innovation coniata dal professor Henry Chesbrough, Alberti racconta che cosa significa per lui open diplomacy, concetto al quale ha dedicato il suo libro (Open diplomacy: Diplomazia economica aumentata al tempo del Covid-19), pubblicato un anno fa e ancora attualissimo,  la cui prefazione è stata curata dallo stesso Chesbrough. Il concetto di open diplomacy mette in relazione due termini apparentemente incompatibili tra loro. D’altronde, segretezza e confidenzialità sono i mezzi con cui ci si aspetta che il settore diplomatico protegga e promuova gli interessi del paese.

Lavorando per Enel, Alberti ha avuto modo di rivisitare tali preconcetti e ha capito che la diplomazia può servire agli obiettivi sia aziendali che nazionali – primo fra tutti la creazione di valore – aprendosi a stakeholder esterni. In tal senso, la diplomazia aperta è l’idea di diplomazia che cresce, migliora e diventa rilevante per il sistema nazionale, schiudendosi e assorbendo nuove idee da molti e svariati attori. “Sono convinto che la diplomazia aperta fornisca un vantaggio incredibile perché tratta non solo con le istituzioni, ma anche con le aziende. Dobbiamo abbandonare i pregiudizi per cui la diplomazia si occupa solo di relazioni internazionali e affari politici. Essa rappresenta anche un mezzo con cui possiamo assorbire l’innovazione dalle aziende e migliorare i servizi pubblici che forniamo alle aziende stesse”. C’è quindi bisogno di una mentalità diversa, un mindset flessibile e curioso, che permetta di porre buone domande e non solo di trovare buone risposte. “L’open diplomat è quello che crede che le idee siano come le persone: non amano essere isolate o essere trattate con gelosia”.

Flessibilità e curiosità non sono due qualità scontate. Secondo Alberti, sono state la chiave del successo della sua carriera. “L’efficienza è sopravvalutata. Ciò che davvero fornisce valore sono flessibilità, ossia la capacità di trasformarsi in base alle circostanze, e curiosità, la quale permette di coltivare interessi trasversali”. Queste, però, non sono caratteristiche proprie solo degli individui, ma anche delle aziende, che spesso ne sono purtroppo manchevoli. Senza flessibilità e curiosità, il focus è perennemente sugli obiettivi e i target da raggiungere, cosa che annebbia la visione d’insieme e rischia di avere un impatto drammatico sul risultato finale.

Non meno importante è il pensiero critico, che rende i manager, le aziende e i Paesi capaci di anticipare la realtà. Questo difficilmente si apprende, ma piuttosto si assorbe guardando la realtà da diverse prospettive, ponendosi le giuste domande e formulando previsioni sempre più accurate. Ripensando alla sua esperienza in Enel, l’Ambasciatore Alberti racconta di come la società avesse iniziato a investire e produrre energia rinnovabile più di dieci anni fa, quando ancora pochi credevano nella sua importanza. Quando poi il cambiamento climatico e la sostenibilità energetica sono diventati una priorità e un trend, Enel aveva da tempo stabilito il suo vantaggio: ormai lungimirante in termini di energia rinnovabile, l’azienda era già in grado di guardare alla digitalizzazione come importante risorsa per la transizione energetica. Quest’ultima, così come l’economia circolare e la trasformazione digitale, è per definizione sia pubblica che privata: proprio questa dicotomia le permette di abilitare e accelerare l’evoluzione della diplomazia economica.

Così come sono cambiati i modi e gli strumenti per comunicare, lavorare, viaggiare, non ci si può illudere che la diplomazia non subirà – o non stia già subendo – dei cambiamenti dirompenti. Ciò che è sicuro è che la diplomazia continuerà a essere utile, se non essenziale, per la creazione di valore.

Di Alberto Di Minin e Asia Mariuzzo

  • Sergio Arzeni |

    Corporate Diplomat è un concetto molto interessante perché esalta la fluidità e la partnership fra pubblico e privato ed in particolare come alcuni diplomatici abbiano fatto esperienza in imprese private, spesso a partecipazione statale. I casi di Vincenzo De Luca e Pasquale Salzano all’ENI e a CDP, di Giuseppe Scognamiglio a Unicredit o come quella di Marco Alberti all’ENEL.
    Questo processo si inquadra in una tendenza ad accentuare il ruolo di agenti dello sviluppo economico dei diplomatici italiani come dettato da un ministro degli Esteri dei primi anni del 2000. Il problema è che in Italia l’80% dell’occupazione è nelle PMI che fanno più del 60% dell’export (300 miliardi di euro su 500) e il sistema delle PMI fatto non di singole imprese , ma di distretti industriali, filiere, confederazioni di PMI, avrebbero bisogno di un boost anche con la contaminazione di corporate diplomats, e questo disperatamente manca.

  • Jacopo Givoletti |

    Gentile Dr Di Minin,
    innanzitutto, ringrazio Lei e la Dr.ssa Mariuzzo per questo interessantissimo articolo.
    Quanto scrivete è molto attuale e nella mia esperienza posso dirvi che nazioni come gli USA o la Francia adottano questo approccio da oltre dieci anni con eccellenti risultati. L’Italia purtroppo se ne sta rendendo conto solo adesso.
    Io sono ben lieto della esperienza di ENEL e dovremmo tutti farne tesoro. ENEL però è un grande gruppo e le relazioni diplomatiche per ENEL sono all’ordine del giorno.
    Vi ricordo però che il tessuto industriale italiano è per lo più fatto da piccole e medie imprese.
    Aziende con spiccata professionalità e con quella flessibilità che oggi si scopre essere un grande punto di forza, ma che non sempre hanno risorse da dedicare all’internazionalizzazione tramite la menzionata Diplomacy.
    Veniamo da un periodo che ha messo gli imprenditori duramente alla prova. La pandemia, i protocolli & lo “smart working”. Il reperimento di personale qualificato “rubato” alle aziende italiche da aziende irlandesi o con sede a Lussemburgo ma fatto lavorare in “smart working” in Italia con stipendi non equiparabili.
    Il problema della materia prima e l’aumento dei costi, dei tempi di consegna e delle giacenze di magazzino. L’inflazione, le guerre e le sanzioni.
    Quanto riportato, seppur di grande valore ed attualità, è un aspetto sul quale le piccole/medie imprese dovrebbero lavorare ma l’attuale situazione “distrae” l’imprenditore alle prese con numerosi problemi da risolvere.
    La Open Diplomacy è un ottimo spunto di riflessione ma adatto a non-molte aziende italiche in grado realmente di esercitarlo strutturandosi opportunamente. Per tutte le altre temo non ci sia molto da fare a meno che non si realizzi una infrastruttura diplomatica, a supporto di quest’ultime. Gli USA e la Francia ci sono riusciti e sono partiti molti anni fa con corpose strutture commerciali presenti nelle ambasciate. Se vogliamo recuperare occorre iniziare a lavorare uniti come sistema Italia e non come singoli. Del resto, è risaputo che l’unione fa la forza.
    Cordialissimi saluti,
    jacopo givoletti

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