Parte la gara di Venture Factory. 60 milioni per il trasferimento tecnologico

Nicola Redi è da decenni membro della Società Canottieri Firenze. Anni e anni di vogate sulle acque dell’Arno lo hanno abituato ad un approccio al lavoro di squadra particolarmente utile in questo nostro “ecosistema innovazione”. Ci siamo sentiti telefonicamente e abbiamo commentato le importanti notizie rese pubbliche oggi dall’European Investment Fund che hanno caratterizzato la sua estate densa di lavoro e di grandi risultati.
Riportiamo qui la nostra chiacchierata con pochi filtri e molti spunti interessanti per “gli addetti ai lavori”.
 Ne è uscita una chiacchierata un po’ da addetti ai lavori, che riportiamo qui di seguito senza filtrare troppo i contenuti
.  

Nicola è forse corretto che sei uno dei più GRANDI  Venture Capitalist italiani? Ci spieghi cosa è successo a Vertis, la società di gestione del risparmio di cui sei Investment Director?
NR: Sono probabilmente il più ALTO venture capitalist italiano! La notizia a cui fate riferimento è data dal fatto che la piattaforma di investimenti Itatech, facente parte del piano Juncker, dotata di 200M per progetti a favore del trasferimento tecnologico (TT), ha finanziato per la prima volta un fondo di investimento italiano. Per iniziativa di Vertis è nato in Italia il primo fondo dedicato al 100% a investimenti in technology transfer per progetti provenienti da ricerca pubblica italiana.

Quello che leggiamo sui vostri comunicati stampa è che Vertis ha fatto partire un fondo che si chiama Vertis Venture 3 – Technology Transfer, che avete raggiunto un primo closing con il conferimento di 40 milioni di euro, tutti provenienti dalla piattaforma Itatech. Si tratta di risorse di Cassa Depositi e Prestiti e Commissione Europea. Non siamo davanti ad una normale operazione di VC. Il trasferimento tecnologico è al centro delle vostre attenzioni.
Ve lo confermo, il fondo ha un target fissato a 60 milioni e ha un taglio molto particolare. Il trasferimento tecnologico, a supporto di strategie di Open Innovation non è necessariamente l’obiettivo di investimento di un fondo di Venture Capital. Abbiamo costituito un’advisory company dedicata, chiamata Venture Factory, il cui team  si dedicherà a supportare Vertis nelle metodologie di valutazione per questi progetti nati nell’ambito della ricerca pubblica e per l’attuazione del trasferimento tecnologico sino al campo industriale.
Miriamo a raccogliere altri 20 milioni sia attraverso investitori istituzionali che vedano la Ricerca & Innovazione come parte della loro mission, sia da investitori corporate. Il nostro fondo è uno strumento finanziario ma, di fatto, utilizzando il vostro linguaggio, si configura come strumento di una Open Innovation strategy.

La squadra è già al completo?
Abbiamo già individuato una persona esperta in ambito di gestione del trasferimento tecnologico, ma siamo ancora alla ricerca di un investment manager con seniority di circa 6 anni che abbia competenze più tipiche di VC (asset management). Abbiamo intenzione di allargare la squadra, una volta che il fondo avrà raccolto ulteriori risorse. Siamo inoltre sempre aperti ad accogliere stagisti.

Qual è il tuo ruolo, Nicola, in questa nuova entità?
Il sarò una delle tre persone che comporranno il Comitato Investimenti. Oltre a me Renato Vannucci,  e Roberto Della Marina. Tre persone con esperienze complementari e background eterogenei, nelle quali si incarna un mix di competenze che spaziano dalla finanza più tradizionale (Venture Capital & Private Equity) agli ambiti di management e di ricerca industriale e internazionale. La diversificazione delle competenze è stata operata in un’ottica di ottimizzazione dei processi di trasferimento tecnologico.

Tra questi nomi manca Mauro Odorico, tuo compagno di avventura da svariati anni, che condivide con te molta della filosofia che ha ispirato questa nuova avventura. Come ci spieghi questa assenza?
In realtà l’assenza di Mauro in Venture Factory è legata ad una seconda buona notizia che ha caratterizzato l’estate di Vertis. Ci stiamo dividendo in tre ambiti di azione.
L’area di Private Equity, che segue logiche finanziarie più “tradizionali”, ha concluso la parte di investimento ma sta per avviare altri progetti rivolti in particolare alla PMI
L’area di Venture Capital si trova a sua volta suddivisa in due aree specializzate ma accomunate dal focus sulle tecnologie abilitanti per la transizione al paradigma Industry 4.0 e pro-trasformazione digitale.
Da una parte abbiamo il fondo Vertis Venture 2 – Scale Up specializzato in investimenti a sostegno di società private (non enti pubblici di ricerca) che abbiano già svolto autonomamente le attività di sviluppo della tecnologia ma necessitino di capitali per la fase di commercializzazione. Il fondo Scale Up nasce con una dotazione di 30M€ (il closing è stato annunciato lo scorso 21 agosto, con il Fondo Italiano di Investimento nelle vesti di anchor investor accanto ad altri investitori istituzionali) e ha un target di 60M€. Questo fondo rappresenterà la principale area di azione di Mauro.
Io invece sarò più coinvolto con Vertis Venture 3 – Technology Transfer, che nasce come una sorta di spinoff rispetto all’ambito di attività che hanno caratterizzato Vertis fino ad ora.
Entrambi i fondi di VC sono orientati a sostenere progetti in ambiti selezionati e ad alto contenuto tecnologico, complementandosi a vicenda (Trasferimento tecnologico da ricerca pubblica e Scale up di progetti di impresa innovativi).

Non sei nuovo a questo ambito di azione. Hai/avete da anni creduto nel trasferimento tecnologico come leva per nuovo vantaggio competitivo di questo paese. Ci siamo conosciuti nel 2008, quando avevate dato vita a TT Venture (dove TT stava per technology transfer). Arrivare però a differenziare così marcatamente con due fondi di investimento diversi altrettante linee di azione è un po’ ora la novità.
Sia in TT Venture che in Vertis abbiamo maturato la consapevolezza che il mondo della ricerca pubblica italiana è un giacimento inesplorato dal quale si potrebbe estrarre moltissimo valore: mancano strumenti finanziari e un approccio adeguato che sappia cogliere questo potenziale e farlo diventare motore di sviluppo in ambito industriale.
Come avete giustamente colto, i due fondi svolgono ruoli diversi e Venture Factory si impegnerà nell’esecuzione di un “carotaggio” altamente specializzato, supportato da dotazioni finanziarie e da una modalità di azione ad-hoc. Il nostro mestiere sarà quello di capire i bisogni del mondo industriale (italiano e internazionale) ed intercettare le eventuali soluzioni in potenza nel mondo della ricerca italiano su cui scommettere per sviluppare prodotti e/o imprese capaci di raggiungere i mercati di riferimento. Un tale modus operandi darebbe al mondo finanziario un ruolo nuovo nella valorizzazione della ricerca italiana.

Da quando studiamo i temi del trasferimento tecnologico Ministri, Rettori e Direttori di Dipartimento hanno usato questa tua  stessa terminologia, più o meno le tue stesse parole per esprimere lo stesso concetto. Molto spesso in questi discorsi si evidenziava il ritardo del mondo della finanza nell’affiancare le dinamiche di trasferimento tecnologico e di valorizzazione della ricerca.
E’ la prima volta che una persona del mondo della finanza, con un paio di “trivelle” da 40 milioni di euro tra le mani, parla di sfruttare la “miniera” del trasferimento tecnologico in Italia e si vuole impegnare nei “carotaggi”.
Bisogna precisare che per arrivare alla valorizzazione di questo giacimento non bastano le trivelle da 40 milioni. I mezzi finanziari sono necessari ma non risolvono un problema più profondo. Bisogna lavorare in modo più metodico e dedicato, si deve supplire alle risorse per l’ambito del proof of concept che oggi mancano nel mondo della ricerca.
Per riuscire a sviluppare davvero il potenziale della ricerca in una logica di TT è necessario che università e finanziatori lavorino insieme: attuare processi capaci di trasformare i risultati della ricerca in progetti imprenditoriali  è una questione soprattutto di metodologie e di impostazione. Realizzare l’obiettivo del trasferimento tecnologico richiede tempo, metodi e competenze specifiche.
Noi in Vertis abbiamo testato negli anni quali sono le competenze richieste: abbiamo studiato modelli internazionali diversi, ci siamo confrontati con tante università italiane, abbiamo interagito con Netval imparando molto sulla realtà del trasferimento tecnologico in italia.  Stiamo ancora oggi lavorando per rafforzare le competenze che ci rendano capaci di avviare percorsi di individuazione delle tecnologie, di gestione della proprietà intellettuale, di formazione ed affiancamento delle persone per quanto riguarda le skill più imprenditoriali.
Insomma, avere le giuste trivelle è solo un (buon) punto di partenza  per farsi “mediatori” di un dialogo più intenso e “pragmatico” tra mondo ricerca pubblica (a monte) e mondo industriale (a valle).

Nicola, da tempo ci siamo avvicinati perché hai scelto che come venture capitalist avresti investito su progetti che partivano da una solida base di scienza e tecnologia. Prima TT Venture e poi Vertis si sono specializzati nella selezione di iniziative caratterizzate da trasferimento tecnologico. Ora però ci stai dicendo che è ambizione di Venture Factory spingersi ancora più a monte: non solo selezionare e affiancare, ma mettere il naso fin dentro ai laboratori pubblici per captare idee e progetti che ancora non si sono concretizzati in aziende.
Il nuovo fondo Technology Transfer sarà caratterizzato da una strategia di investimento ispirata al modello anglosassone  tale per cui gli investimenti saranno fatti fin dalla fase di Proof Of Concept (POC). Ciò significa che la valutazione sarà fatta all’interno dei laboratori, delle tecnologie utilizzate fin dalle fasi pre-prototipali (con o senza copertura brevettuale, TRL 3,4) e orientata ad erogare l’erogazione di somme anche piccole ma anche tali da supplire alla mancanza di fondi e di grant di ricerca da parte delle università. Il nostro sarà il primo fondo privato a dare un supporto di questo genere in Italia.
Per i prossimi 3 anni prevediamo di finanziare 24/25 POC, con l’aspettativa di un altissimo tasso di mortalità.

Stiamo parlando di un’operazione tramite cui entrerete in quelle fasi dei processi di sviluppo che normalmente avvengono nei laboratori. Ciò implica che andrete nel merito dell’allocazione delle risorse del personale di ricerca e della valutazione della feasibility tecnologica, che vi coinvolgerete nei dibattiti scientifici sulle diverse strade da seguire per lo sviluppo-prodotti.
Vi sentite adeguatamente attrezzati per entrare e modificare tali dinamiche?
Noi interveniamo in un contesto in cui i finanziamenti erogati dagli enti universitari sono guidati da una logica  “curiosity driven” e nell’ottica della ricerca di breakthrough scientifico-tecnologico. Il nostro fondo adotta un approccio market-oriented,  ambisce ad erogare risorse in un’ottica di feasibility e ricercando potenziali breakthrough di mercato realizzabili in orizzonti di 5/7 anni.
Queste logiche sono già presenti in Enti di ricerca internazionali di eccellenza fuori dall’ambito italiano. Abbiamo visto che all’estero l’impatto sociale della ricerca è già oggi rilevante e che la Terza Missione è parte integrante delle logiche di allocazione delle risorse nelle università anglosassoni.
C’è però da sottolineare che in Italia il numero degli atenei che hanno avviato dei programmi POC sta crescendo, e ciò dimostra che anche nel nostro Paese sta cambiando il modo di intendere la Terza Missione.

Tocchi un punto centrale: in diversi centri di ricerca stranieri le attività che ti proponi di fare tu sono istituzionalizzate, delimitate da un perimetro ben preciso, governate da logiche dei singoli Enti. Andando invece a proporsi e ad affiancare le migliori università italiane richiederà un lavoro a stretto contatto con tanti soggetti, alcuni dei quali vi potrebbero percepire come distrazioni, come elementi  “devianti” nelle attività dei ricercatori.
Non temi di venire percepito come un impiccione?
Non avevo mai pensato che  il nostro ruolo potesse essere visto come quello di potenziali “impiccioni”. Tuttavia, il cambiamento di mentalità dell’università italiana nei confronti della Terza Missione pone una buona base per l’attività a cui daremo vita.
Ovviamente, dovremo essere accorti nel nostro modo di porci: la delicatezza del nostro lavoro starà nel parlare la lingua del ricercatore, di chi comprende la tecnologia e le dinamiche dei percorsi in ambito accademico. Cercheremo di essere percepiti come persone che vengono da un “altro mondo” ma che sanno cosa significa fare il ricercatore, anche perchè molti membri del team di Vertis Venture 3 – Technology Transfer lo hanno sperimentato personalmente prima di approdare all’attuale posizione.
Ambiamo ad essere percepiti come elementi strani ma non completamente estranei da parte del mondo accademico: il nostro ruolo principale sarà quello di parlare la lingua della grande industria (con le sue regole di ingaggio) e della finanza.
Quindi più che “impiccioni” direi che ambiamo a porci come “mediatori culturali”.

Con quali atenei avete stipulato degli accordi? E in cosa consistono questi accordi di mediazione culturale?
Finora tra le Università partner annoveriamo: il Politecnico di Torino, la Scuola Superiore Sant’Anna, l’Università Politecnica delle Marche, il Campus biomedico di Roma, la Federico II di Napoli, l’Hub Innovazione Trentino e il Parco Scientifico Galileo di Padova (che gestisce l’incubatore di UniPD).
Non richiediamo l’esclusiva, ma anzi ci si tiene aperti a collaborazioni con terzi. Per lo più si regola la confidenzialità delle informazioni di sui Vertis viene a conoscenza.  Gli aspetti commerciali saranno invece trattati nei contratti Proof Of Concept: è già stato costituito un gruppo di lavoro misto che vede la partecipazione di esperti Netval per definire un modello standard di contratto (che regolerà anche la gestione dei diritti di proprietà intellettuale nelle diverse fasi di sviluppo del POC).

Dietro al tuo lavoro sul trasferimento tecnologico c’è una fede che il mondo della ricerca sia un giacimento inesplorato e che abbia un grande potenziale per la creazione di nuovo vantaggio competitivo.  Hai senz’altro bisogno di compagni di barca per tirare la volata. Il tuo spirito è quello giusto, ma guardandoti attorno cosa vedi? C’è la volontà, ci sono i mezzi e la convinzione per mettere al centro logiche di trasferimento tecnologico?
Sono ormai dieci anni che ho a che fare con questo mondo. Mi sono convinto che in questo ambito si giochi gran parte dello sviluppo economico del Paese. Ci sono molte persone disposte a fare squadra, vari tavoli di lavoro si stanno costruendo attorno al nostro fondo, dimostrandoci che il settore è in fermento e ciò lo rende ancor più interessante e degno di impegno.

Questa è una logica anche europea, dove si stanno muovendo tante cose. Ho trovato estremamente costruttiva la relazione con il Fondo Europeo per gli Investimenti e con le persone con cui ho interagito al suo interno. Siamo tutti interessati a capire quali siano le modalità per facilitare il TT in Europa e disponibilissimi a connettere competenze e pensieri. 

Alberto Di Minin e Luisa Caluri