Continuare a reinventarsi senza perdere l’equilibrio. Dialogo con André Dahinden su Amgen Italia #FuoriCernobbio

Dal Giugno del 2017 André Tony Dahinden è responsabile della direzione strategica di Amgen Italia. Dahinden ha iniziato la sua carriera in Roche, per poi trasferirsi in BCG ed in Bristol-Myers Squibb, prima di approdare in Amgen nel 2015. Abbiamo avuto modo di incontrarlo a Villa D’Este, in occasione della quarantaquattresima edizione dell’annuale Forum Ambrosetti. L’idea di questo dialogo è stata quella di capire lo stile manageriale di questo giovane dirigente.

Non è comune avere un manager svizzero che viene in Italia. Quali sono le motivazioni di una scelta così? Il cuore o l’irragionevolezza?

C’è una motivazione professionale ed una privata.
La parte professionale è che l’Italia è un grande paese, tra i più grandi in Europa e tra i cinque/sei big al mondo nel mercato della salute.
D’altra parte, ho un’affinità per l’Italia. Ho giocato a basket a livello agonistico e ho passato tanto tempo in Ticino per allenamenti e gare; inoltre  nella mia carriera ho lavorato con italiani come Giovanni Caforio, Lamberto Andreotti e Pierluigi Antonelli.  Poi come molti turisti amo il cibo italiano, gli abiti italiani, la gente e il sole! Quindi perché andare in Italia soltanto per le vacanze, quando puoi anche lavorare qui?

Grazie, Bellissima risposta! Proviamo allora a giocare un po’ su questa prospettiva. Da svizzero che viene in Italia quali sono secondo te “le three rules of doing business in Italy”?

Numero 1: L’essere umano conta; quindi, soprattutto nel business della salute, contano i dipendenti, contano tutti gli interlocutori, conta chi lavora con i pazienti e, soprattutto, contano i pazienti. L’ Italia è un paese di relazioni: senza un contatto umano non vai da nessuna parte.

Numero 2: L’Italia è un paese in cui le emozioni giocano un ruolo, ma con grandi cervelli; la relazione da sola non basta. Devi avere una proposta logica. In particolare, la medicina è un campo basato su forti criteri scientifici ed oggettivi. I dati e le conoscenze contano.

Numero 3: Rimanere flessibili; in Italia molto cambia (anche se qualcuno in realtà ha detto che molto cambia perché niente cambia). Serve flessibilità per interloquire con un network diverso di stakeholders, non rimanere rigidi pur perseguendo un obiettivo.

Hai la reputazione di essere un capo, un collega, molto squisito, una persona a cui è facile voler bene. Da qui, vengono degli spunti per due domande: hai accennato al tuo percorso da cestista, sei riuscito a portare i valori dello sport in azienda? E, seconda domanda, in azienda la moral suasion funziona o ogni tanto serve “the carrot and the stick”?

Cominciamo con lo sport. Ho imparato (dal basket, ma anche dagli sport di montagna e dalle arti marziali) che devi fare due cose.
Innanzitutto, avere un obiettivo comune; sembra semplice, ma per raggiungerlo bisogna che sia chiaro ed esplicito per tutti. Secondo, anche in un contesto ben gestito, bisogna avere i talenti: serve gente capace di dribblare e tirare, altrimenti tutto cade. Come azienda, dobbiamo creare una squadra che abbia tutte le caratteristiche necessarie per giocare bene insieme. Lavoro di squadra e talento individuale è il mix vincente.
E sulla base della mia esperienza, credo che la moral suasion aiuti a creare il contesto e la voglia di raggiungere alcuni obiettivi, ma non basta. Serve creare anche un minimo di incentivi, soprattutto positivi.
Questi vent’anni nel mondo della salute mi hanno insegnato che, come in ogni relazione, è sempre il bilanciamento tra le varie cose a funzionare.

Prima di abbandonare questo topic, hai dei punti di riferimento, dei modelli manageriali, un imprenditore o un libro, che ti hanno ispirato?

Non tanto. Io credo che ognuno abbia una qualità che serve. Mi piace la somma dei piccoli stimoli; così ho piacere di fare chiacchierate come questa, ogni volta prendo qualcosa e costruisco il mio puzzle, che ha molte linee e molti colori.
A 43 anni ho le mie assunzioni su cosa potrebbe funzionare o no, ma poi cerco continuamente di validare, prendendo tutti gli input possibili.

Parliamo della tua azienda: Amgen. E’ un caso che studiamo spesso come trend setter. C’è nel passato, nel presente o nel futuro di Amgen qualcosa che ti rende veramente orgoglioso di lavorare per questa azienda? Ad esempio, partiamo dalla storia: si tratta di una multinazionale di 14000 dipendenti. All’inizio degli anni 80 i fondatori hanno intuito l’enorme potenziale del mondo delle biotecnologie, e dalla scienza dell’UCLA la conquista del settore è avvenuta tramite una serie di acquisizioni e l’approvazione di diversi farmaci di successo.

La grande storia di Amgen è l’essere pionieri nello sviluppo delle molecole biologiche. Oggi sembra quasi una commodity, ma non era così quaranta anni fa. Mi ha stupito la capacità e la tenacia di Amgen nel voler sintetizzare in modo semi-naturale proteine che possono migliorare la vita delle persone. Questo continua a meravigliarmi ancora oggi.

Quale oggi la caratteristica chiave di AMGEN?

La capacità di reinventarsi.
Amgen è arrivata a 23 miliardi di dollari, ma abbiamo deciso di allargare ancora la nostra portata.
Abbiamo sempre operato nelle malattie ad alta specializzazione, ma – viste le nostre dimensioni – recentemente abbiamo capito che dobbiamo attaccare anche le grandi malattie, ad esempio le cardiovascolari, killer numero uno in Italia. Per questo, siamo entrati con i primi anticorpi monoclonali per ridurre l’ipercolesterolemia.
Siamo partiti producendo nuove molecole innovative, recentemente abbiamo esteso il nostro portfolio replicando alcune molecole che esistono già, si chiamano bio-similari.
E’ un po’ come quando nei nostri acquisti personali, anziché il brand top di gamma, prendiamo un articolo con la stessa qualità del brand, ad un prezzo rivisitato (perché non include i costi di tutto il processo di ricerca e sviluppo, di chi ha realizzato il prodotto originario).
Dunque possiamo allungare il ciclo di vita dell’innovazione farmaceutica, replicando un farmaco con la stessa qualità e dandolo ad un prezzo più economico. Così, i sistemi sanitari riescono a raggiungere più pazienti e si creano nuovi fondi per l’innovazione.

Quale sarà l’approccio per il domani riguardo agli investimenti di Amgen in innovazione? Sarà una iniziativa che partirà dalla regione EMEA o con un taglio più worldwide? Quale sarà il modello di finanziamento di questi fondi (e.g. saranno operazioni di corporate venturing, incuberete start-up, …)? 

L’obiettivo è quello di portare la medicina più avanti possibile. In particolare, la strategia di allungare il ciclo di vita dell’innovazione farmaceutica con i bio-similari è una strategia corporate.
Anche il nostro modello di crescita deve essere bilanciato. Dobbiamo certamente essere attivi nella ricerca in-house, ma anche vigilare sul fronte delle acquisizioni, sia di aziende che di tecnologie. Abbiamo il fondo Amgen Ventures Funds, che investe in piccole start-up
Amgen Ventures Funds prende una parte di equity, come un “tradizionale” corporate venture.
Inoltre guardando un po’ più a monte, con Amgen Foundation investiamo per favorire lo sviluppo della cultura scientifica nei paesi in cui siamo presenti. In Italia, abbiamo diversi programmi per la formazione degli studenti (Amgen Biotech Experience), dei docenti (Amgen Teach) e degli universitari (Amgen Scholars).
Solo nell’ultimo triennio la Fondazione ha erogato ai nostri sistemi scolastici e ai talenti universitari coinvolti fondi per 500.000 euro.

Una sfida per le grandi aziende è quella di trovare una maniera di interfacciarsi con le start-up, con le PMI, con le università e i centri di ricerca, senza arroganza, ovvero con la capacità di essere veramente a fianco nel processo innovativo.
D’altronde, le imprese piccole – quando sono davanti ad un colosso come Amgen – hanno generalmente due preoccupazioni; i tempi, che nella corporate sono molto più lunghi, e il fatto che, forse inconsapevolmente, a volte la grande impresa investe soprattutto con l’obiettivo di eliminare una minaccia.
Senti anche tu queste come delle sfide per Amgen?

 I veri clienti di Amgen Venture Funds sono le start-up e i pazienti che beneficiano dell’innovazione. Io sono solo un interlocutore interno nella mia area di expertise.
Io non seguo direttamente le attività di AVF, ma chiaramente, i rischi che tu descrivi sono concreti quando c’è un imbalance di poteri e di fondi. È chiaro che talvolta gli interessi sono asimmetrici, ma almeno nel Pharma spero che nessuno voglia acquistare una tecnologia per ucciderla.
Alla fine, quando le aziende investono, il loro obiettivo è sviluppare un farmaco ed aiutare il paziente. Questo è un ambito in cui c’è un forte scollamento tra i vari paesi, perché sistemi sanitari diversi possono essere interessati a soluzioni diverse e, dunque, non è sempre facile trovare un mercato di sbocco per le innovazioni. Talvolta i Paesi fanno politiche di attuazione di investimenti per la ricerca, ma la sfida è poi fare sì che questa innovazione arrivi ai pazienti.
Io sono ottimista: in Amgen vogliamo fare originators e bio-similari offrendo un portafoglio integrato.

Ultima domanda: qual è il sogno nel cassetto di Mr. Dahinden da qua a cinque anni? Hai programmi a medio-lungo termine?

Onestamente, sono molto contento della mia vita, mi sento privilegiato, posso lavorare ed interagire con persone in gamba.
Non ho un grande sogno: il mio sogno è sentirmi bene ogni giorno, discutendo con persone come voi. Questo è il mio privilegio.

Di Alberto Di Minin in collaborazione con Cristoforo Grasso

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#FuoriCernobbio è stato realizzato grazie alla collaborazione di The European House Ambrosetti.
Ringrazio in particolare Rossana Bubbico, Fabiola Gnocchi e Paola Pedretti per il paziente affiancamento. 

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