Negli anni Novanta, Michael Porter scriveva che strategy is choosing what not to do. La strategia è scegliere cosa non fare. Ne abbiamo parlato diverse volte in queste pagine riflettendo sull’Open Innovation proprio come una scelta strategica. In un mondo dove questo paradigma sta prendendo sempre più piede come un imperativo categorico per chi innova, non è un caso che una delle scelte che possono e devono fare le nostre aziende sia anche quella di non adottare modelli di Open Innovation.
Non sorprende dunque il commento di Manuel Schneider, Head of Open Innovation presso il gruppo BMW, a Milano al Convegno Finale dell’Open Innovation Lookout (26 febbraio), l’osservatorio nazionale sull’Open Innovation promosso dal gruppo Innovation & Strategy del Politecnico di Milano e da Lab11 spin-off della Scuola Superiore Sant’Anna. In quel contesto Schneider ha dichiarato: “quando guardiamo all’Open Innovation, dobbiamo essere onesti, siamo davanti ad una biforcazione…”
Manuel non è solo un manager di esperienza che ha gestito processi di Open Innovation in diversi contesti ma anche una persona che trova il tempo di fermarsi e riflettere su quello che fa. Il suo punto di vista ci porta in Nord Europa e ci illustra una situazione post-bolla. Le sue parole non hanno bisogno di troppe interpretazioni. “Nel corso dell’ultimo anno, aziende come SAP, Deutsche Telekom, Siemens hanno disinvestito nelle loro attività di open innovation. Aziende come queste hanno chiuso i loro incubatori, i loro venture programs, le loro iniziative di corporate clienting. Queste aziende si stanno interrogando sui risultati e sull’efficacia di una strategia di open innovation.” Siamo arrivati a fine corsa? Non esattamente. Secondo Schneider “Altre aziende stanno puntando con convinzione sull’innovazione aperta. È questo il caso di grandi gruppi dall’automotive alla logistica.”
Spesso, disinvestire sull’open innovation, o sospendere l’applicazione di modelli aperti, implica la sostituzione di modalità di ricerca e sviluppo che fanno leva su risorse esterne con modelli orientati a una crescita ed un efficientamento interno. In altre parole, ripensare ancora una volta le modalità di organizzazione dell’innovazione. Questo aspetto è fondamentale per comprendere il fenomeno dell’Open Innovation, in linea con la maturazione di un modello a vent’anni dalla sua introduzione.
Questo bisogno di un’Open Innovation sempre più consapevole delle risorse, dei talenti e dei processi richiesti dimostra come il modello sia entrato a far parte dei processi aziendali e non necessariamente come un must. È una scelta strategica che richiede investimenti e che spesso, nel breve termine, si scontra con il ROI. Da anni, lo stesso Henry Chesbrough, autore dei primi libri sull’Open Innovation, insiste che troppo poco si sa sui fallimenti del modello, e che tanto invece ci sarebbe da imparare da errori e inversioni di tendenza.
La biforcazione è dunque un tassello chiave che ci pone di fronte alla fine di una fase di “moda” dell’Open Innovation, dove il paradigma deve essere applicato con maggiore responsabilità e integrazione nei processi aziendali. Per farlo, sempre più utili gli intermediari, le società di consulenza specializzate, il cui ruolo di affiancamento diventa sprezioso, come dimostrano i dati dell’Osservatorio, che stima un valore di oltre 700 milioni di fatturato per il mercato italiano. C’è però un aspetto legato a questa maggiore professionalizzazione: oggi, fare Open Innovation in modo consapevole vuol dire anche e soprattutto misurarne i risultati e l’impatto, nella convinzione che esista un valore lì fuori (prevalentemente economico) da co-creare e catturare.
Questo emerge chiaramente dall’ultimo rapporto dell’Osservatorio presentato nel corso del convegno che guarda ai player dell’ecosistema, allo stato del Venture Building in Italia e soprattutto alla misurazione dell’impatto dell’Open Innovation. Quest’ultima risulta un elemento sempre più essenziale per trasformare le intenzioni strategiche in valore tangibile e decisioni informate. Come fare allora a misurare l’impatto? Tre le parole d’ordine: (i) processo – l’attività deve partire dall’esplicitazione delle priorità strategiche; (ii) diversità – le aree di misurazione devono essere variegate e includere nel breve e nel lungo termine dimensioni economiche, sociali, ambientali e culturali, offrendo una visione olistica sulle iniziative di innovazione aperta; (iii) personalizzazione – l’attività di misurazione deve rispondere a specifici bisogni di chi la implementa, selezionando le aree di misurazione più rilevanti e definendo indicatori di performance specifici sia di tipo quantitativo per monitorare i risultati e l’avanzamento dei lavori che qualitativo per meglio.
In quest’ottica, il gruppo di ricerca ha implementato l’OI Balanced Scoreboard, un cruscotto che permette di mappare e monitorare in modo flessibile input, iniziative, output e outcome. Uno strumento strategico non solo per CIO e Innovation Manager, ma anche per responsabili di progetto e di comunicazione, utile a misurare, raccontare, decidere e ripensare il proprio modello di innovazione aperta. Per capire se, quanto e come aprirsi e (perché no?) anche chiudere.
Di Alberto Di Minin e Giovanni Tolin
Video completo del Convegno di Milano