Per chi avesse intenzione di trasferirsi a Pisa, oggi vorrei segnalare alcuni dei benefit della vita in questa piccola città universitaria toscana. (1) La mattina accompagno mia figlia Lucia all’asilo in bicicletta prima di andare a lavoro al Sant’Anna. (2) In cinque minuti un taxi mi può portare dal centro all’aeroporto. (3) Spesso mi capita di concludere la giornata ragionando del più e del meno davanti ad un aperitivo con Andrea Di Benedetto.
Nel corso degli ultimi anni, Andrea mi ha raccontato la sua concezione di artigiano digitale, della sua azienda e delle sue avventure romane. Insieme abbiamo concepito alcuni momenti delle diverse edizioni di CNA Next.
Andrea Di Benedetto è innanzitutto un imprenditore, co-fondatore di 3Logic, una delle aziende che caratterizzano il distretto dell’ICT pisano. 3Logic ha oggi 13 anni di vita e 20 dipendenti: “non più una start-up”, sottolinea Andrea. Ma cosa vi è mancato per crescere in maniera esponenziale come una “start-up innovativa” dovrebbe saper fare?
“Innanzitutto ci è mancata la capacità: non siamo stati in grado di crescere. Questo è un fattore, però, che rappresenta solo in parte la realtà. A me piace pensare che, da un altro punto di vista, non abbiamo mai voluto rinunciare alla nostra dimensione di bottega artigianale in cui, prima di ogni altra cosa, ciò che si crea è un luogo di trasmissione di sapere dall’università a noi, da chi ha un’esperienza commerciale a chi ha una forte preparazione tecnica, e viceversa. Per valorizzare questo sapere, credo che sia giusto dire che 3Logic ha costruito un vivaio dove queste competenze si fondono e da cui partono innanzitutto progetti che si concretizzano in spin-off verticali, che poi acquisiscono una loro dimensione ed una loro indipendenza. Un esempio interessante è SpazioDati, azienda costituita a Trento che oggi, probabilmente, è l’esperienza di start-up di maggior successo nel mondo Big Data in Italia. L’azienda è stata protagonista di una bella storia: Cerved, il principale player italiano su dati finanziari ed economici delle aziende, ha acquisito una quota di minoranza di SpazioDati tramite un significativo aumento di capitale. Obiettivo di questa alleanza è di sviluppare, tramite le nostre tecnologie, nuovi ambiti applicativi sui Big Data di Cerved.”
Andrea, però, non è il classico artigiano casa e bottega. Da diversi anni, infatti, si è impegnato in CNA, prima come Presidente dei Giovani e ora come Vice Presidente nazionale con delega per l’innovazione e per il digitale. Ha un’idea di artigianato un po’ particolare, che parte dalla sua esperienza di imprenditore ed è legata, di fatto, non tanto ad un modo di lavorare ma ad un vero e proprio modo di fare impresa. È su questa idea di artigianato che Andrea ha impostato le linee guida del suo lavoro in CNA.
“Come succede in 3Logic, al centro di un’azienda artigianale non c’è soltanto il lavoro di un imprenditore-artigiano: in molte situazioni è rilevante la trasmissione di sapere che avviene nel contesto aziendale. Essere artigiani in questo senso, dunque, ha a che vedere con un modello di business e possiamo, quindi, dire che la gran parte delle aziende italiane nasce proprio come artigianale. Poi che cosa succede? Uscendo dalla diatriba “piccolo è bello” contro “piccolo è brutto”, si può dire che le dinamiche di sviluppo portano ogni azienda dinnanzi ad un bivio: crescere consolidando questo DNA artigianale oppure ricercare altre tipologie di economie di scala ed un’efficienza produttiva tipica di una logica industriale. Ebbene, è interessante come tanti nuovi mestieri, anche tra i più innovativi e ad alta intensità di tecnologia, si possano svolgere con una logica tipicamente artigianale. Al contempo, lo sviluppo dimensionale di molte attività aziendali, che stanno nascendo nel contesto digitale, necessita di un modello di business che è artigianale.”
L’immagine dell’artigianato tuttora dominante, però, è quella della ditta individuale, di un’azienda a bassa intensità di capitali e principalmente legata allo svolgimento di una professione…
“Corretto: la mia non è una visione di artigianato in linea con l’immaginario collettivo degli italiani e della politica. Clamorosamente non è neppure in linea (o forse non lo era) con la percezione degli artigiani stessi che, fino ad ora, hanno visto se stessi non come degli imprenditori che producono valore in modo diverso ma come dei piccoli imprenditori destinati a rimanere piccoli. Sta avvenendo, però, un cambiamento profondo anche nelle associazioni di categoria: sia in Confindustria, sia in CNA, sia in Confartigianato.”
Il tuo è un ragionamento che identifica l’artigianato come un modello di business applicato a partire dalle botteghe venete del ‘600 e che arriva fino alle ultime frontiere delle stampanti 3D. Ci vuoi convincere che questo modello di business sia particolarmente compatibile con gli asset che caratterizzano oggi il nostro Paese. In altri termini, tu affermi che la grande manifattura è basata su un modello di business adeguato alle prassi della rivoluzione industriale del secolo scorso; oggi, invece, il “nuovo imprenditore artigiano” può essere il protagonista di una rivoluzione nuova, fondata sul digitale. È corretto?
“Non credo che la mia sia una consapevolezza mainstream. Penso, piuttosto, che prima di andare a scomodare modelli di start-up californiane che non ci appartengono, esiste un modo di fare impresa che è artigianale e che è una modalità particolarmente compatibile con lo sfruttamento di alcuni asset tangibili e intangibili di questo Paese. Il PIL manifatturiero rimarrà ancora per molti anni dominato dalla sua componente industriale, ma io sono convinto che la componente artigianale costituirà, per l’Italia e per l’Europa, un vantaggio competitivo ed un valore aggiunto sempre crescenti.”
Analizziamo meglio le caratteristiche dell’artigiano digitale. Chi è? Un attore inserito nella filiera dell’ICT/digitale? Un produttore di beni digitali?
“Il digitale può essere un elemento abilitante per una serie di start-up e per il restart di aziende artigiane in senso lato. Ci sono tre categorie di aziende artigianali/digitali e la mia scommessa è che queste tre categorie di soggetti siano le protagoniste di una nuova rivoluzione industriale.
La prima categoria è quella delle aziende digitali pure. Si tratta di aziende che producono elettronica, software, sistemi, Arduino, le app… Un’impresa come 3Logic, ad esempio, produce beni digitali (hardware o software). Questa è una componente molto importante della nostra economia e lo sarà sempre di più. Facendo riferimento al territorio di Pisa, secondo l’ultimo report dell’Osservatorio delle imprese high-tech di Unioncamere, l’unico settore che sta crescendo qui da noi è quello digital. Senza dubbio si tratta di una fase temporanea e non possiamo immaginare che in questo Paese crescerà solo il comparto digitale ma, appunto, il digital sta diventando un pezzo rilevante dell’economia, anche a livello occupazionale.
La seconda categoria di imprese è composta da aziende protagoniste di processi di digitalizzazione, di produzioni non digitali. All’interno di questo gruppo di soggetti troviamo sempre di più casi aziendali che, innestandosi sugli assi caratterizzanti del Made in Italy, trovano nella massiccia adozione di strumentazioni digitali un fattore abilitante per espandersi su nuovi mercati. Ritengo che ci sia un forte spazio di crescita per questa seconda categoria di soggetti, anche perché il Made in Italy è profondamente indietro su questo fronte. Molte aziende tradizionali, in posizioni di eccellenza internazionale, non hanno ritenuto essenziale sviluppare le loro competenze e la loro dotazione digitale. Esse potrebbero meglio svilupparsi ed acquisire un maggiore peso nelle filiere di produzione in cui sono inserite se utilizzassero meglio le strumentazioni digitali a loro disposizione. È incredibile pensare che, ancora oggi, un cliente straniero particolarmente interessato ad un manufatto italiano non sia messo nelle condizioni di acquistarlo on line. C’è tantissimo lavoro da fare. L’espansione di questa categoria di soggetti non passa soltanto attraverso lo sviluppo della banda larga ma anche, e soprattutto, attraverso politiche educative, incentivi ed azioni di categoria.
Esiste, infine, una terza categoria di soggetti: le aziende “Born Digital”, dove è la cultura digitale, più che i suoi strumenti, a plasmare il modello di business. Queste aziende non sono né digitali nel bene che producono, né caratterizzate da una massiccia adozione di strumentazioni digitali. Per loro il digitale non è un volano particolarmente rilevante. Certo, se necessario utilizzano l’app o il sito ma per attività che, tutto sommato, non sono quelle centrali: lo fanno come “minimo sindacale”. Ciò che le caratterizza è un approccio al business che è tipico del mondo digitale. Sono pronte, cioè, ad usare capitali di rischio, adottano modelli di crescita basati su adoption virale, sono pronte a trovare modelli di business e pricing innovativi, sono in grado di differenziare fin da subito i compiti di management e proprietà e sanno governare dinamiche di sourcing aperto di tecnologie e di idee. Sono sempre di più i casi di aziende con un DNA digitale in grado di imporsi nei settori tradizionali del Made in Italy: dall’alimentazione all’arredamento.”
Temo che per queste tre tipologie di aziende protagoniste di un nuovo capitalismo imprenditoriale/artigianale sia particolarmente difficile trovare in Italia gli asset necessari per lo sviluppo della loro filiera del valore. Talento e creatività italiana, in ambiti sempre più numerosi, devono guardare altrove per trovare un’adeguata capacità distributiva e adeguate piattaforme di e-commerce o crowdsourcing. Sei d’accordo?
“Su questo argomento la politica è un po’ bicefala. A me capita di sentir dire in giro, contemporaneamente, “attenzione gli stranieri ci colonizzano!” e “non sappiamo attrarre i capitali stranieri”. Vogliamo mantenere italiana la proprietà o i posti di lavoro? In una filiera internazionale bisogna guardare sia alla localizzazione del lavoro sia a quella del valore aggiunto e del profitto. Prendiamo il caso Booking: una piattaforma che, senza dubbio, facilita la prenotazione e l’accesso a strutture recettive italiane, ma poi il 15% del ricavo finisce in Olanda. Loro Piana: tiene in Italia l’occupazione, ma sposta in Francia tutto il resto. Possiamo accontentarci? Non distruggere posti di lavoro è senz’altro un risultato importante, ma se sapessimo anche controllare il modello di business sapremmo anche mantenere in Italia il profitto generato da queste filiere.”
Andrea sai che un mio pallino è quello del Research in Italy che, in un articolo scritto con il Prof. Riccardo Varaldo, ho definito quella filiera del valore che parte dalla valorizzazione di scienza e tecnologia ed arriva a portate sul mercato nuovi prodotti e servizi. Ritengo che su questa filiera l’attrazione di capitali stranieri non possa che essere letta come un elemento positivo e che dal Research in Italy possano nascere le competenze necessarie ed i fattori abilitanti per sviluppare il nostro vantaggio competitivo come Paese. Nel tuo ragionamento e nella tua vision di artigianato c’è uno spazio per scienza e tecnologia?
“Assolutamente sì: il trasferimento tecnologico rappresenta una leva fondamentale per lo sviluppo di tutte le tre categorie di aziende digitali. Un trasferimento inteso come implementazione di una strategia di Open Innovation. Gli artigiani digitali devono diventare suppliers di un’economia della conoscenza rivolta alla grande manifattura ed alle aziende in generale.”
Da pochi mesi sei diventato Presidente del Consiglio di Amministrazione del Polo Tecnologico di Navacchio. Fammi capire: come concretamente si può innestare la tua vision di artigiano digitale in una realtà come quella del Polo?
“Il Polo Tecnologico di Navacchio è il più grande insediamento italiano di aziende tecnologiche puramente ICT. È un soggetto che ha creato valore, che è cresciuto tramite i finanziamenti europei e le quote pagate dalle aziende ospiti. Si tratta di un caso di successo perché, dopo la dotazione iniziale dei suoi azionisti pubblici (Provincia di Pisa e Comune di Cascina), il Polo è riuscito a svilupparsi per mezzo di risorse proprie. Dal primo lotto iniziale ora siamo arrivati all’inaugurazione del quarto. Come Presidente vado ad affiancare il Direttore Alessandro Giari: è la prima volta che il Polo adotta una governance duale e nutriamo l’ambizione di operare un cambio di marcia. Vogliamo evolverci da un modello di business immobiliare per passare ad un altro livello, replicabile anche in altre realtà italiane. L’idea è di creare un luogo o dei luoghi che in maniera sistemica promuovano questa filiera della conoscenza. Gli incubatori non devono solamente offrire uno spazio di co-working, di co-localizzazione, ma devono ospitare soggetti digitali che diventano componenti abilitanti di una libreria di saperi, che organicamente si presenta a chi ha delle capacità produttive, alle grandi aziende multinazionali che si interfacciano con una piattaforma di conoscenze qualificate. In Italia esistono già delle esperienze simili che non hanno a disposizione la massa critica di saperi che oggi, invece, esiste a Pisa. Un incubatore deve essere il plug tramite il quale la manifattura internazionale entra in un sistema di conoscenze caratterizzato da CNR, Università, Sant’Anna, Normale e dall’ecosistema delle start-up locali. Più in generale, la Toscana ha ciò che io definisco “un surplus di conoscenze”. Abbiamo una marea di eccellenze ma poca manifattura. Sarebbe auspicabile, dunque, presentare al mondo queste conoscenze, utilizzando la logica del one-stop-shop: “pagate una fee e venite a giocare con questo surplus di conoscenze alla ricerca di un modello di business”. Questo vale sia per la conoscenza sviluppata degli enti di ricerca pubblici, sia per le competenze dell’indotto digitale. Abbiamo un know how che fa gola alle grandi aziende, ma interagiamo con loro solamente in forma disorganica, casuale e sporadica. Il potere negoziale e la qualità dell’offerta aumenterebbero drasticamente se a presentarsi ad un partner industriale non fosse il singolo imprenditore, bensì un soggetto che si propone come marketplace, un portale d’accesso a questo sistema di competenze. È una sfida enorme ma… perché non provarci?”
Mi stai descrivendo, di fatto, un modello di Open Innovation applicato ai distretti industriali italiani. In questo contesto, poiché esci dalla logica del “digitale per il digitale” oppure dell’”high-tech per l’high-tech”, scommetti che sia possibile trovare nelle grandi aziende (italiane e straniere) quell’absorptive capacity nei confronti di ciò che tu chiami “surplus di conoscenze” prodotto nei nostri territori.
“Oggi tanti territori stanno sperimentando diversi modelli di incubazione, di trasferimento tecnologico e di digitalizzazione della pubblica amministrazione. Lo stanno facendo un po’ a macchia di leopardo, senza una logica di coordinamento. È evidente la necessità di una regia. Nel nostro piccolo, una strategia per Pisa Digitale, o per la Toscana Digitale, non ha senso che sia proiettata a riprodurre qua da noi la Silicon Valley. Dovremmo puntare, piuttosto, su soggetti che promettono di sviluppare fattori abilitanti di una nuova manifattura. In questo contesto, io propongo un’idea alternativa agli incubatori: invece di immaginarci incubatori che producono start-up digitali che poi si trasformano in Google o Facebook, crescendo esponenzialmente nell’indifferenza (o, peggio, declino) dei distretti che hanno tradizionalmente caratterizzato il Made in Italy, l’alternativa è creare un ecosistema caratterizzato da rapporti con il mondo dell’università e della ricerca, con il territorio e la sua capacità produttiva/industriale. È questo l’ambito in cui l’imprenditore/artigiano può giocare un ruolo importante.”
Esiste in questo contesto un ruolo per il settore pubblico?
“Le politiche regionali sono fondamentali per arrivare ad un’analisi e ad un’approvazione di un approccio territoriale condiviso. Bisogna superare i tanti campanilismi e lo strumento per farlo è un’azione di steering da parte della Regione, in grado di direzionare investimenti ed iniziative verso un soggetto che abbia davvero un respiro internazionale. Dal canto suo, invece, il Governo dovrebbe costruire una politica economica del Paese basata su un digitale non fine a se stesso, ma inteso come fattore abilitante di tutto il resto, della manifattura, secondo le tre categorie di cui si è già parlato. Non c’è solo la banda larga! Esiste un enorme problema di competenze, imprenditoriali e manageriali. Credo che in questo ci sia un ruolo che può essere giocato dalla scuola a tutti i livelli, in quanto aziende come la mia, ad un certo punto, si fermano poiché non sanno andare oltre la logica e l’idea della bottega, poiché mancano le competenze per farlo.”
Se in un certo modello di trasferimento tecnologico era rilevante il know-how, cioè la competenza e il saper fare di due partner coinvolti in una negoziazione, in un mondo di competenze particolarmente diffuse ed interconnesse conta sempre di più il know-where, cioè la capacità di saper identificare velocemente, mettere efficacemente a sistema ed appropriarsi del valore generato da competenze ovunque queste vengano prodotte. Spiegami come in un simile contesto credi ci sia il bisogno di sviluppare le competenze necessarie per lo sviluppo del tuo portale di trasferimento.
“L’imprenditore “nativo digitale”, di cui si parlava prima, vive in un contesto in cui ciò che conta è il know-where. Anche se la sua azienda si sviluppa in settori tradizionali, essa è già predisposta all’idea di doversi mettere alla ricerca di un ottimo CFO e di tecnologie esterne. Ma stiamo ancora parlando di mosche bianche. La mancanza di cultura di impresa e di capacità manageriali costituiscono ancora degli ostacoli.. Per quanto riguarda la cultura d’impresa, dobbiamo promuovere la figura dell’imprenditore/cuoco, costantemente alla ricerca degli ingredienti giusti per preparare nuove ricette. Da un punto di vista manageriale, è fondamentale innervare le start-up e le PMI italiane delle competenze manageriali necessarie per implementare una strategia di open innovation, per gestirne opportunità e complessità. In questo senso, in Toscana, una delle misure di intervento più riuscite è stata quella dei voucher sui servizi avanzati. Due lire, rispetto ai progetti faraonici lanciati in passato, ma due lire ben indirizzate verso l’idea di andare a portare in azienda delle competenze che prima non c’erano. Questo finanziamento ha dotato tante imprese toscane di nuove competenze manageriali tramite temporary management, piani commerciali, business planning di nuovi prodotti e ristrutturazioni aziendali.”
Andrea hai una lettura da consigliarci per qualche ultimo weekend sotto l’ombrellone e quali sono gli appuntamenti da mettere in calendario per l’autunno?
“Sto leggendo con molto gusto “Making is connecting” di David Gauntlett: un racconto con forti riferimenti alla cultura punk ed appassionante da un punto di vista sociologico nella sua descrizione del come la rete sta cambiando il mondo. La rete viene intesa come un abilitatore di dinamiche culturali e sociali. Per quanto riguarda gli appuntamenti di ottobre, sono certo che tutto il mondo della manifattura digitale sarà presente alla Maker Faire di Roma, ci sarà anche un pezzo di CNA Next. Inoltre, ci stiamo preparando per l’Internet Festival a Pisa, dove tra i tanti eventi, ci sarà un’hackaton basato su Internet of Things. Saranno occasioni fondamentali per dimostrare che esistono esperienze di artigianato italiano già digitali e già sul mercato.”
I ragionamenti di Andrea sono particolarmente in linea con il lavoro che in questi mesi sto conducendo con l’amico Federico Frattini del Politecnico di Milano. Stiamo cercando casi aziendali compatibili con un modello che abbiamo definito “Open Territorial Lab”. In questo contesto due sono gli elementi fondanti del vantaggio competitivo di un’azienda: l’eccellenza tecnologica e il capitale relazionale. Quando l’Open Territorial Lab può essere la strategia vincente? Lo è in un ambito industriale dove non conta solamente la scala dimensionale, ma conta anche il rapido accesso ad un ambito applicativo in cui imparare e perfezionare soluzioni e modelli. Vedo interessanti complementarietà tra il modello di imprenditore/artigiano che Andrea ha in mente e questa idea di ricerca. Ma il tempo a disposizione per il nostro aperitivo è finito e questo sarà l’argomento della prossima serata insieme.