Henry Chesbrough, Professore presso la Haas School of Business di Berkeley e l’ESADE di Barcellona, ha coniato nel 2003 il termine “Open Innovation”. I suoi tre libri, Open Innovation, Open Business Models e Open Services Innovation, applicano questo concetto a diversi contesti e settori.
Un buon punto di partenza per esplorare questo concetto è il Program in Open Innovation, coordinato da Henry. Senz’altro, però, un aspetto fondamentale dell’Open Innovation è il trasferimento di ricerca dal settore pubblico al settore privato. Per preparare l’articolo di oggi su Nòva, dunque, ho chiesto ad Henry di commentare i dati del rapporto NetVal e di mettere a confronto il sistema europeo con quello americano.
Posterò presto le interviste con gli altri esperti che ho interrogato in questi giorni. Intanto ecco quello che Chesbrough mi ha detto: troverete interessanti e non banali le sue considerazioni, che mettono a confronto la realtà USA con quella europea…. e anche qualche consiglio per le vostre letture.
Parliamo di trasferimento tecnologico dalla ricerca pubblica al settore privato. Per definizione esso è parte dell’Open Innovation. Ma si tratta di un elemento rilevante per le aziende? Nella tua esperienza da una parte e dall’altra dell’Atlantico, si tratta di flussi in crescita o in diminuzione?
“La valorizzazione della ricerca pubblica è senz’altro un aspetto molto importante per le dinamiche di Open Innovation. Le attività e strategie poste in essere in questo ambito sono rilevanti, sia negli Stati Uniti sia, e soprattutto, in Europa e nel Sud America, dove il finanziamento governativo è cruciale per il trasferimento tecnologico.”
Puoi indicare dei casi interessanti di valorizzazione della ricerca pubblica?
“Per trasferire conoscenza è fondamentale muovere le persone. Molte politiche in Europa promuovono il trasferimento tecnologico ma inibiscono il trasferimento degli individui: si pensi all’Olanda, Paese in cui ai professori è vietato, nel loro tempo libero, di svolgere lavoro remunerato in azienda. È necessario liberalizzare la circolazione delle persone se vogliamo un trasferimento tecnologico più efficiente.”
La tua esperienza negli USA e in Europa ti permette di mettere a confronto i due ecosistemi dell’innovazione ed in particolare due diversi approcci al trasferimento tecnologico. Cosa ci puoi dire? Cosa i due sistemi possono imparare l’uno dall’altro?
“Ritengo che il coordinamento tra le università, l’industria ed il governo sia più stretto in Europa che negli Stati Uniti. Ciò crea una grande coerenza nelle scelte dei progetti da finanziare. Il finanziamento della ricerca negli USA, però, è più pluralistico e ciò permette una sperimentazione più creativa nei risultati nonostante delle decisioni di finanziamento meno coerenti. Negli Stati Uniti c’è più circolazione dal mondo accademico all’industria e viceversa, rispetto a quanto non succeda in Europa e questo, come ho già detto, sarebbe veramente molto importante. Un punto su cui lavorare!”
Interessante questo tuo punto di vista: Gli Stati Uniti più “pluralisti” ed un’Europa più “coerente” rispetto alle sue scelte di investimento in ricerca e sviluppo. Senz’altro quest’ultimo è un desiderata molto forte del Commissario Quinn, come ha sottolineato nella sua recente intervista per questo blog. Non sono personalmente convinto che questa coerenza sia già una realtà e, comunque, noi Europei siamo convinti che voi Americani siate molto più bravi nello sfruttare l’investimento pubblico in scienza e tecnologia. Sei d’accordo? E ritieni che questa “pluralità” dell’approccio stelle e strisce sia un fattore di successo?
“Non esiste un singolo funzionario del governo degli Stati Uniti o un dipartimento specifico su cui ricada la piena responsabilità dell’investimento pubblico in scienza e tecnologia negli Stati Uniti. Ci sono il Dipartimento della Difesa, quello dell’Energia, la NSF (National Science Foundation) ed il NIH (National Institute of Health), solo per nominare alcuni dei maggiori istituti di finanziamento. Secondo me, gli Stati Uniti sono riusciti a valorizzare meglio la ricerca pubblica ed a portare sul mercato più innovazione anche per una certa pluralità di approcci e complementarietà di strumenti. Non dimentichiamoci che accanto all’investimento pubblico c’è un settore del venture capital che è straordinariamente più forte negli USA che in Europa. E poi, lo voglio sottolineare di nuovo, perché per me è fondamentale: una maggiore circolazione degli individui.”
Passiamo all’Italia. Te ne ho parlato diverse volte, hai conosciuto tu stesso in presa diretta il mio Paese quando sei venuto a presentare due dei tuoi libri (Open: Modelli di Business per l’Innovazione; e Open Services Innovation). Ora ti ho girato il rapporto NetVal 2014. Quale il tuo punto di vista?
“I risultati dell’ultimo rapporto NetVal suggeriscono che l’Italia sta spendendo poco per il trasferimento tecnologico e questo poco è molto più di quanto non riceva sotto forma di royalties dal settore privato. C’è senz’altro qualche cosa che non funziona, perché è evidente che al momento il valore di queste attività di trasferimento non viene riconosciuto dal mercato. Forse per ricercare nuove risorse le università potrebbero sperimentare un approccio diverso, più aperto. In un approccio più open, le università potrebbero ridurre la loro attenzione per i brevetti e le licenze, spostandola su altri strumenti. I manager dei TTO (Technology Transfer Offices) dovrebbero essere spinti a inventare e sperimentare nuovi percorsi e modelli di trasferimento sostenendo di più le pubblicazioni e il lavoro dei ricercatori. Ciò potrebbe anche accelerare i tempi di go-to-market delle tecnologie e ridurre i costi iniziali. Le aziende private sarebbero a loro volta libere di brevettare qualunque miglioramento o modifica che riescono a creare e potrebbero ottenere la necessaria protezione dell’innovazione.”
Henry, ultima domanda: sei sempre alla ricerca di stimoli nuovi… se venissi a curiosare nella tua libreria cosa troverei ora di nuovo?
“Ho iniziato a leggere “Scaling up Excellence” di Sutton e Rao. Questo libro presenta interessanti considerazioni su come processi e cultura cambiano all’aumentare delle dimensioni aziendali. Un secondo libro che mi sta piacendo molto è scritto da Adam Grant, si intitola “Give and Take”: si occupa della gestione del cambiamento, sia a livello personale, sia a livello organizzativo. Infine, “The wide lens” di Ron Adner, un volume che ben integra Open Innovation e cambiamento dei modelli di business.”
Alberto Di Minin in collaborazione con Chiara Eleonora De Marco