Per capire meglio come il modello di Open Innovation si traduce in pratica nel settore delle Scienze della Vita, abbiamo parlato con dei leader del settore nel panorama italiano: la prima intervista ha coinvolto Andrea Chiesi, Capo del Dipartimento di Ricerca & Sviluppo e dell’R&D Portfolio Management di Chiesi Farmaceutici S.p.A..
Cosa è per Chiesi l’innovazione e in che modo l’apertura alla collaborazione può renderla operativa?
Ricerca & innovazione sono il vero DNA di Chiesi: per Chiesi innovare è consentire ai pazienti di tutto il mondo di accedere a terapie così che possano salvare/cambiare la loro vita. Al momento l’azienda ha 51 progetti di ricerca attivi, ed ha investito nel triennio 2015-2017 più di 1 miliardo €, una cifra che equivale ad almeno un quinto del fatturato annuo. Chiesi Farmaceutici ha una vera e propria vocazione a sviluppare nuove terapie, ed è proprio l’impegno profuso nei processi di R&D interna che permette e sostiene la crescita aziendale: lo testimonia il fatto che oltre il 70% del fatturato viene realizzato su prodotti internamente sviluppati.
In ogni caso, è innegabile che l’Open Innovation sia entrata nel DNA del settore farmaceutico già da tempo: la ricerca nell’ambito delle cure per patologie gravi ha spinto sempre più imprese a capire l’importanza di rivolgersi al mondo dei ricercatori per lo sviluppo di cure e di medicinali per patologie più rare che altrimenti sarebbero rimaste trascurate dalle grandi aziende. Di fatto, la collaborazione è parte integrante del modello innovativo di Chiesi Farmaceutici da una vita. Proprio nel 2017 si è celebrato il 25esimo anno dal lancio sul mercato di un farmaco per i bambini nati prematuri, che fu inizialmente sviluppato nei laboratori del Karolinska Institutet e divenne poi oggetto di collaborazione e di commercializzazione della stessa Chiesi. Simile è stato il caso del primo farmaco costituito da cellule staminali approvato per la commercializzazione in Europa (nel 2015), oggetto di una partnership tra Chiesi Farmaceutici ed alcuni ricercatori dell’Università di Modena e Reggio Emilia: dalla partnership ha preso vita nel 2008 Holostem Terapie Avanzate S.r.l., spinoff dal centro di medicina rigenerativa “Stefano Ferrari” di UniMoRe.
Chiesi ha rivolto la propria apertura alla collaborazione non solo al mondo della ricerca: sforzi di open collaboration sono stati fatti anche con startup produttrici di dispositivi diagnostici: le partnership con questo genere di attori sono funzionali per affiancare l’offerta di prodotti farmaceutici a più moderne strumentazioni digitali che servono la mission aziendale.
Tutto ciò richiede all’azienda farmaceutica la massima flessibilità delle modalità organizzative, per stabilire uno scambio quanto più proficuo con gli interlocutori coinvolti e direzionato ad acquisire competenze o asset protetti dalla proprietà intellettuale cui altrimenti non si potrebbe accedere.
Quali le criticità nei processi di Technology Transfer e quali i colli di bottiglia nell’iniziare e mantenere partnership?
Le considerazioni possono essere a due livelli, uno più specifico/granulare e l’altro più generale/strutturale.
Al livello più specifico, riguardante i rapporti di collaborazione con ricercatori o startup attive nel mondo del biotech, è fondamentale che entrambe le parti si impegnino a costruire un linguaggio comune e a condividere i rispettivi obiettivi fin dall’inizio della collaborazione.
Dal momento che le aziende farmaceutiche sono soggette a leggi molto restrittive sulla gestione delle caratteristiche di prodotti e processi (spesso la “qualità” non viene intesa allo stesso modo da un player pharma o da una startup tecnologica), è necessario gettare le fondamenta “culturali” e di linguaggio (su specifiche e parametri di interesse) innanzitutto, per poi rendersi disponibili ad agire in un’ottica di convergenza delle rispettive idee ed esigenze senza preconcetti o restrizioni pregresse. Poiché ognuna delle parti ha un insieme di risorse (fisiche o intangibili) che l’altra non ha, la comunicazione e la trasparenza diventano imprescindibili per la gestione delle rispettive aspettative e dei risultati condivisi.
Per quanto riguarda le criticità strutturali, le aziende operanti nel settore farmaceutico si trovano a dover costantemente lavorare secondo orizzonti strategici di sviluppo dei nuovi prodotti molto lunghi (10-15 anni), che si accompagnano a livelli altissimi di investimento e d’incertezza dei ritorni su quest’ultimo. Una pianificazione a lungo termine delle attività di R&D e un set di competenze approfondite nella gestione della proprietà intellettuale sono elementi centrali nell’ordinario operare delle imprese pharma, che di fatto sperimentano una necessità di certezza e stabilità nell’evoluzione legislativa ben più spiccata che negli altri settori. La “pervasività” e il livello di stringenza che caratterizzano (giustamente) le normative riguardanti l’industria farmaceutica fanno sì che il cambiamento legislativo possa impattare in modo massiccio sui modus operandi di un’azienda nel settore, condizionandone, di fatto, l’orizzonte di impostazione strategica.
L’introduzione in Italia del credito di imposta e gli sgravi fiscali sulle attività di R&D hanno aumentato fortemente l’attrattività del Paese per le imprese pharma, ma permane un bisogno di stabilizzazione dell’evoluzione normativa italiana, che dovrebbe essere posto come priorità dai governi dato il diretto impatto che essa può produrre sulle attività industriali in tale ambito e di conseguenza sulla vita dei cittadini-pazienti.
Oltre a ciò, in Italia si ha che il corpus legislativo è così complicato e voluminoso da rendere estremamente arduo iniziare dei percorsi collaborativi o di partnership per lo sviluppo di soluzioni biotech: le collaborazioni si arenano ancor prima di cominciare per l’incapacità di conoscere o di gestire gli iter burocratici o gli obblighi in materia di fiscalità. Nel caso di collaborazioni con le università, la cosa viene resa ancor più complicata dalla gestione “per silos” e dalla mancata armonizzazione dei regolamenti tra Università e Università o addirittura tra diversi Dipartimenti dello stesso ateneo: la difficoltà di interpretare i diversi regolamenti e i molteplici colli di bottiglia che si manifestano nella comunicazione aumentano i tempi o addirittura la “mortalità” delle procedure di collaborazione.
Quale il valore aggiunto di essere una family firm nel panorama farmaceutico?
La scelta strategica di non separare la proprietà dalla gestione (tramite la quotazione) è stata dettata dalla volontà strategica di mantenere i processi decisionali indipendenti dalle aspettative e dalle valutazioni borsistiche. Tale indipendenza lascia una maggior flessibilità decisionale (su orizzonti più lunghi) che è importantissima in contesti dove l’incertezza interessa sia le normative che i ritorni sull’investimento.
Rimane necessario, comunque, sforzarsi per crescere e farlo con ritmi consoni alle evoluzioni di mercato: un alto commitment sull’R&D interna può aiutare ad innalzare i ritmi di crescita più di quanto non si riesca passando attraverso la via delle partnership: ecco perché l’innovazione deve essere perseguita sia per vie interne sia per approcci più open.
Di Luisa Caluri e Alberto Di Minin