Da alcuni anni il tema della qualità di didattica e ricerca negli Atenei Universitari in Italia è divenuto oggetto dell’attenzione di tanti istituzioni, di centri di ricerca ed organizzazioni che, a vari livelli, hanno rilevato alcune preoccupanti tendenze, proprie del sistema educativo italiano. Tendenze che sembrano mettere in dubbio la sua capacità di produrre e far circolare la conoscenza.
Per quanto riguarda l’utenza è scoraggiante vedere come il numero di iscritti nelle università in Italia sia in diminuzione. Tra i dati riguardanti la domanda del settore universitario spiccano quelli della Banca d’Italia che, nel rapporto dello scorso settembre, ha rilevato che l’entry rate e il completion rate italiani risultano al di sotto della media europea; l’OCSE, dal canto suo, nel rapporto Education at a glance richiama l’attenzione sull’andamento negativo del finanziamento pubblico all’istruzione, diminuito del 14% tra il 2008 e il 2013, nonché sulla ridotta offerta di programmi professionalizzanti nei curricula dell’istruzione secondaria e terziaria del Bel Paese.
Da queste statistiche si potrebbe inferire che da parte dei policy-makers manchi una visione strategica capace di valorizzare appieno le potenzialità del sistema educativo ed universitario e volta ad originare uno sviluppo non solo culturale ma soprattutto sociale, nonché economico, per tutto il sistema Paese.
Se tuttavia rivolgiamo la nostra attenzione alla qualità, non tanto della didattica, ma della ricerca, ci accorgiamo che l’Italia dispone di un potenziale che neppure gli ostacoli dettati dai fabbisogni di bilancio (statale) riescono a soffocare. Secondo Anvur, nel quadriennio 2014-2016 la produzione scientifica italiana è cresciuta costantemente, aumentando al contempo il suo contributo percentuale alla produzione scientifica mondiale, e innalzando il proprio indice di citazioni accademiche al di sopra della media europea e della maggioranza dei singoli Paesi membri; inoltre, la domanda di ricerca da parte del sistema produttivo italiano registra un aumento dei finanziamenti da parte del settore privato, di organizzazioni sovranazionali e di realtà non-profit.
Per quanto circostanziati, questi dati risultano importantissimi se letti con la consapevolezza che la produttività e il valore della produzione in un Paese sono positivamente correlati con l’attività di ricerca condotta dalle istituzioni, e in primo luogo dagli atenei universitari afferenti al medesimo. In un contesto globalizzato in cui l’industria si è fatta più dinamica e cambiamento ed innovatività sono ormai divenuti paradigmi necessari a comprendere la realtà attuale, il ruolo giocato dagli atenei risulta ancora più fondamentale per lo sviluppo di società economicamente resilienti.
Pur rispondendo a logiche assai diverse da quelle di mercato proprie delle imprese, le Università si strutturano come elemento complementare, direi necessario, nei confronti di queste ultime: idealmente, gli atenei dovrebbero costituirsi come elemento di interfaccia e di collegamento tra il bacino di capacità della popolazione giovanile e il mondo professionale e/o istituzionale in cui tali competenze vengono messe al servizio della società nel suo complesso. La creazione di un ponte tra il mondo dell’istruzione terziaria e l’universo del business si pone come elemento-cardine e propulsivo per lo sviluppo tecnologico, economico, culturale e sociale del contesto in cui questi due mondi coesistono.
Ecco perché è particolarmente degno di nota l’accordo trilaterale di cooperazione siglato lo scorso 22 Febbraio 2017 tra la Scuola Superiore Sant’Anna, la Chongqing University e il Governo di Bishan (distretto della Municipalità di Chongqing) per la realizzazione della Sino-Italian Research and Innovation Area nella Bishan National High-Tech Zone, a cui sarà destinata una superficie di ben 40 ettari.
Alla stipula dell’accordo hanno contribuito Pierdomenico Perata, Rettore della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, il sottoscritto, in qualità direttore del Galilei Institute (istituto insediatosi a Chongqing dal 2006 sotto l’amministrazione della Scuola), insieme a Zhou Xuhong, Presidente della Chongqing University, e al vice-Sindaco di Chongqing, Mu Huaping. L’ufficializzazione dell’accordo ha avuto luogo a Pechino, alla presenza del nostro Presidente della Repubblica Sergio Mattarella (in quei giorni in visita di Stato in Cina) e del Presidente della Repubblica Popolare Cinese Xi Jinping.
L’accordo dà il via a un progetto pilota della durata di due anni, finanziato dal Governo locale e supportato dal Galileo Galilei Italian Institute del Sant’Anna, che mira a rendere Chongqing un centro propulsivo per la promozione di progetti innovativi e della collaborazione tra Italia e Cina, sia sul fronte educativo, sia su quello imprenditoriale.
I due atenei si sono impegnati a cooperare alla creazione di progetti di ricerca e programmi di studio (Master e Dottorati) condivisi, incrementare le opportunità di scambio per docenti, ricercatori e laureandi e promuovere al contempo le attività di sperimentazione ed ingegnerizzazione nell’ambito di tali percorsi.
Un obiettivo centrale della Sino-Italian Research and Innovation Area è quello di ospitare incubatori per lo sviluppo di start-up e stimolare la formazione di un network di Venture Capitalists e Business Angels: tutti elementi cruciali per l’instaurazione di flussi di conoscenza e di competenze tra contesto universitario e industriale, non solo a livello locale, ma anche internazionale. Unica università italiana in Cina ad essere presente da dieci anni con un proprio Istituto con personale in pianta stabile, la Scuola Sant’Anna si prefigge infatti la creazione di una piattaforma di supporto a tutte quelle altre realtà universitarie e di ricerca che vogliano esplorare le opportunità di Chongqing.
L’iniziativa appare ancora più significativa se teniamo conto che negli ultimi anni il governo cinese e quello italiano hanno promosso a gran voce le iniziative di sviluppo strategico e industriale nei rispettivi contesti (si pensi, ad esempio, ai progetti cinesi “One Belt One Road” o “Made in China 2025”, rapportati al piano strategico italiano per lo sviluppo nazionale e per l’“Industria 4.0”).
Peraltro, la collaborazione tra i due atenei conferma il trend di cooperazione tra il nostro Paese e la Repubblica Cinese, reso evidente dall’iniziativa strategica “21st Century Maritime Silk Road”, nell’ambito della quale l’Italia si pone come partner centrale di supporto allo sviluppo di operazioni logistico-portuali sul territorio europeo.
Perché accordi come questo aiutano a completare il lavoro di valutazione svolto da ANVUR? L’accordo stretto dalle due università si riallaccia in modo forte e netto con le tematiche della Terza Missione dell’Università ed è ricollegabile anche ai paradigmi dell’open innovation del trasferimento tecnologico, che negli ultimi anni hanno acquisito sempre più spazio nel dibattito pubblico e hanno richiamato l’attenzione sul potenziale delle università di impattare in modo decisivo sullo sviluppo del contesto socio-economico a livello nazionale e sovranazionale.
Da un lato, l’open innovation (di cui ho parlato in vari miei articoli), sebbene sia un concetto di per sé adattabile a molteplici contesti organizzativi, è stato concepito e studiato essenzialmente in rapporto a contesti di impresa. Diverso è il discorso per la Terza Missione, riconosciuta dall’Anvur nella propensione degli atenei ad aprirsi verso il contesto socio-economico circostante, mediante il trasferimento (valorizzazione) delle conoscenze che essi sviluppano al loro interno. La stessa ANVUR si impegna a valutare, tra i vari elementi, anche in che misura i singoli atenei perseguano la suddetta “vocazione”, quantificando – tra i vari indici – l’attività di ricerca e/o consulenza per conto terzi, l’intensità dell’attività brevettuale, così come la presenza sul territorio di incubatori di imprese compartecipati dall’università, di spin-off nate da esse, o di consorzi per le attività di trasferimento tecnologico. Queste attività di valorizzazione possono avere anche una finalità internazionale, facendo così diventare le università e il Research by Italy soggetto attivo di diplomazia scientifica.
È incontrovertibile quindi che la partnership instauratasi tra l’ateneo toscano e quello cinese si muova in una direzione assolutamente coerente sia col paradigma dell’open innovation, che con l’obiettivo della Terza Missione, ne amplia anzi la portata, arrivando ad abbracciare una dimensione globale. Creando un ponte tra due realtà lontane e diverse, ma non per questo inconciliabili, la Sino-Italian Research and Innovation Area mira ad espandere la presenza delle università nelle reti mondiali delle Global Value Chains (GVCs) e a promuovere iniziative condivise tra atenei, PMI e grandi multinazionali, permettendo che i cosiddetti knowledge spillover si realizzino e creino benefici socio-economici tali da travalicare la dimensione locale.
Iniziative come quelle promosse dal Sant’Anna e dalla Chongqing University testimoniano che l’Università non è quella macchina ingolfata dalle baronie, da stipendi troppo bassi, dalla burocrazia e da una bassa vocazione professionalizzante che molti descrivono: è ancora possibile ripartire dalla ricerca, dall’innovazione e sognare in grande, aprendosi a collaborazioni nuove e sviluppando nuove idee e progettualità. Certo, per farlo è necessario uscire dai canoni e dalle tassonomie adoperate per valutare la performance, ma la ricerca deve saper e poter osare, uscendo anche dalle strade ben delineate.
Solo così potremo continuare a svolgere un ruolo di cerniera tra scienza, tecnologia e società.
Questo articolo è stato scritto da Luisa Caluri e Alberto Di Minin