In attesa di analizzare quelli che saranno i contenuti del Congresso del Partito a Pechino, vi propongo alcune riflessioni riguardo una vicenda che ha infiammato il dibattito sul ruolo della Cina nell’attuale panorama di politica ed economia internazionale.
Lo faccio insieme a Filippo Fasulo, Coordinatore scientifico del CeSIF (Centro studi per l’impresa della Fondazione Italia Cina) e neo-borsista della Scuola Sant’Anna, che insieme a me esplorerà, tra Milano e Pisa, temi di attualità cinese.
Quando il Presidente Xi Jinping nel gennaio di quest’anno si presentò a Davos, in Svizzera, con un discorso sulla globalizzazione molti commentatori internazionali capirono subito la portata dell’evento. Tuttavia l’esigenza contestuale di contrapporre la Cina comunista al neo-presidente americano – che si sarebbe insediato nel giro di pochi giorni – dichiarato sostenitore dell’introduzione di maggiori tutele per l’industria nazionale, fece presto dimenticare la reale questione affrontata dal presidente cinese. Xi Jinping, dunque, alfiere dell’apertura economica e della globalizzazione opposto a un occidente guidato da Trump in chiusura? A leggere il position paper della Camera di commercio europea in Cina per il biennio 2017/2018 ci si rende conto di come il dibattito sia più complesso e le posizioni relative.
Il tema principale affrontato dal documento degli stakeholders europei a Pechino, infatti, è quello dell’apertura del Paese agli investimenti stranieri in un contesto in cui gli IDE cinesi in uscita hanno sopravanzato quelli in entrata, un sorpasso avvenuto nel 2015 e consolidatosi nel 2016. Come riporta chiaramente l’European Chamber tale risultato non è frutto soltanto dell’eccezionale crescita dello shopping cinese in Europa, Stati Uniti, Africa e nei Paesi coinvolti dalla Belt and Road Initiative – una dinamica diventata di pubblico dominio nel nostro Paese grazie alle spettacolari acquisizioni di Inter, Milan e Pirelli -, ma anche conseguenza di uno stallo nella crescita degli IDE verso la Cina: infatti, se si escludono i capitali provenienti da Hong Kong (spesso cinesi a loro volta) il dato degli investimenti verso la Cina è stabile tra i 36 miliardi di dollari del 2009 e i 38,8 del 2016.
Agli occhi degli investitori europei la perdita di attrattività di Pechino e Shanghai è da imputare al peggioramento delle condizioni per fare business e ad un’implementazione ancora insufficiente delle riforme annunciate nel corso degli scorsi anni. I limiti alle opportunità per le imprese estere lamentate dal position paper sono di vario tipo e riguardano diversi settori. Secondo un sondaggio fra gli operatori presenti in Cina, quasi il 50% ha dovuto rinunciare a progetti interessanti a causa di regolamentazioni poco favorevoli. Tra le leggi ritenute un limite al fare impresa vi è senz’altro quella sulla cybersecurity – di cui si criticano vaghezza e ampiezza – che potrebbe avere un impatto su settori quali il cloud computing, i servizi finanziari, le assicurazioni, la sanità e l’e-commerce. I timori per un business environment più propenso a premiare le aziende cinesi rispetto a quelle straniere risiedono anche fra le pieghe dell’iniziativa Made in China 2025, oggetto di ampie considerazioni da parte della Camera di Commercio Europea in una pubblicazione dello scorso anno e nuovamente richiamate. Questo piano trae ispirazione dal progetto tedesco Industry 4.0 volto a integrare le istanze della quarta rivoluzione industriale nel tessuto manifatturiero della Germania e che ha stimolato un’analoga iniziativa legislativa in Italia.
Tuttavia, le intenzioni cinesi vanno ben oltre la semplice risposta all’avvento della robotica e dell’integrazione digitale nell’industria e si concentrano invece sulla completa ristrutturazione del comparto industriale della Repubblica popolare. L’obiettivo di lungo periodo – oltre al 2025 ci sono appuntamenti fissati nel 2035 e alla metà del secolo – è quello di diventare una potenza industriale non più grazie al ricorso a lavoratori poco qualificati e a basso costo, bensì tramite innovazione e tecnologia. In questo processo Pechino ha individuato dieci settori prioritari nei quali la Cina dovrà diventare gradualmente leader grazie anche ad obiettivi di crescenti quote di produzione nazionale detenute da aziende domestiche.
Le preoccupazioni europee, dunque, riguardano il rischio di un trattamento iniquo fra attori nazionali e stranieri. Bisogna segnalare, tuttavia, come Pechino – per bocca del Ministero dell’Industria e dell’Information Technology – stia respingendo tali timori imputando piuttosto le difficoltà degli investitori europei in settori innovativi a eventuali restrizioni alle esportazioni nei paesi di origine.
Il position paper della Camera di Commercio europea in Cina – così come altre pubblicazioni della stessa – è particolarmente significativo perché in grado di generare un dibattito con le autorità cinesi. Nello specifico, quest’anno l’attenzione è stata rivolta agli sforzi verso l’apertura del mercato cinese, la creazione di un ambiente per una competizione equa e il rafforzamento delle azioni finalizzate ad attirare investimenti stranieri. Tuttavia, l’interpretazione della Camera è che si siano verificate in tempi recenti alcune chiusure significative, quali ad esempio in settori come il food and beverage – tra cui la limitazione per alcuni prodotti caseari a partire dal 1 ottobre – e l’automotive, soprattutto con riferimento ai veicoli a nuova energia.
La reazione da parte cinese è stata affidata a Gao Feng, portavoce del Ministero del Commercio che ha colto l’occasione del position paper per ribadire la volontà del governo di cinese di portare avanti riforme volte all’attrazione degli investimenti. Allo stesso tempo ha ribadito la necessità che l’Unione Europea tenga le porte aperte agli investimenti cinesi. Simili considerazioni sono state fatte delle istituzioni cinesi denunciando uno speculare peggioramento delle condizioni per gli investimenti cinesi in Europa.
Come si evince, dunque, le considerazioni sulla Cina che batte gli Stati Uniti in termini di apertura dei mercati erano alquanto premature, anche in considerazione del fatto che la Repubblica popolare risulta agli ultimi posti in termini di apertura secondo gli indicatori dell’OECD.
Il termine evocato quasi lateralmente in questo documento, mentre era al centro del position paper dell’anno passato, è quello della reciprocità. Secondo alcune interpretazioni, il discorso di Davos infatti era più una richiesta agli altri di aprirsi che un impegno a eliminare le proprie barriere. Sullo sfondo del dibattito bidirezionale sull’apertura del partner e la tutela delle proprie industrie restano considerazioni quali la concessione da parte dell’Unione Europea dello status di economia di mercato della Repubblica popolare che a 15 anni dai negoziati per l’ingresso della Cina al WTO nel 2001 dovrebbe essere un processo automatico secondo i cinesi e soggetto ad approvazione secondo una buona fetta dei membri dell’Unione Europea. In palio c’è il mantenimento di solidi strumenti anti-dumping che limitino la concorrenza sleale in settori in cui la Cina si trova in condizione di sovraccapacità, primo fra tutti l’acciaio.
In questo contesto, la contrapposizione fra le limitazioni per gli investimenti stranieri in settori considerati strategici in Cina e una piena libertà per Pechino di investire in industrie avanzate e innovative del Vecchio Continente hanno già causato un irrigidimento delle posizioni europee. Infatti, dopo il caso della mancata acquisizione nel 2016 dell’aziende di robotica tedesca Aixtron da parte di Fujian Grand Chip Investment Fund per l’intervento dell’autorità regolatoria americana, nel settembre del 2017 la Commissione europea su spinta francese – e anche italiana – ha concesso ai Paesi Membri di poter esercitare un controllo sugli investimenti esteri in tutti quei settori ritenuti strategici. Le autorità cinesi hanno criticato duramente questa iniziativa, insistendo sullo scenario di una Cina favorevole alla globalizzazione e le economie avanzate di USA e Europa in chiusura.
Si profila così un potenziale contrasto fra attori europei e cinesi in cui entrambi chiedono maggiori accessi nei mercati esteri e più protezione per le proprie industrie. Tuttavia, proprio la Belt and Road Initiative insiste ampiamente sulla volontà da parte cinese di promuovere uno sviluppo che sia di mutuo beneficio. Cercare di incentivare progetti che abbiano ricadute sul territorio potrebbe portare ad una maggiore apertura da parte di entrambe le parti in causa.
Di Alberto Di Minin e Filippo Fasulo