Dà sempre una certa soddisfazione trovare una formula elegante o un bel numero per rappresentare un concetto teorico. Insieme a Nicola Vitiello – cofondatore e advisor per l’innovazione e lo sviluppo di IUVO, la start-up specializzata in robotica indossabile, nonché professore della Scuola Sant’Anna – abbiamo pensato che sette è il numero giusto per raggruppare gli abilitatori dell’open innovation: sette fondamentali passaggi strategici che abbiamo analizzato insieme a Vitiello, ripercorrendo il suo percorso di lavoro e ricerca all’interno dell’open innovation.
Un percorso iniziato quindici anni fa, a partire dal suo background scientifico: il primo approccio con la robotica indossabile, infatti, è stato quello del ricercatore. Conoscere e capire il campo nel quale stava iniziando a muoversi è stato poi il secondo passo. «Molti sanno cosa sono i robot, ma non tutti hanno idea di cosa siano i robot indossabili. Rientrano in questa categoria tutti i robot con i quali si può interagire da vicino: sono indumenti, armature, e molti altri strumenti che si possono indossare e che hanno diversi tipi di applicazione». Tra i vari ambiti, quello con il quale è iniziata la ricerca di Vitiello è stata la riabilitazione. «Un campo dove l’innovazione incontra tantissime regole» e numerose sfide, compresa quella di trovare soluzioni creative.
1. APPLICAZIONE. Iniziando quindi il viaggio che dall’ispirazione porta all’innovazione, abbiamo affrontato il primo dei nostri sette abilitatori, ossia l’applicazione della tecnologia. «Per quanto riguarda la mia esperienza», ha raccontato Vitiello, «i ricercatori tendono a pensare che la tecnologia sia la soluzione, ma non è così». La tecnologia è l’abilitatore, è vero, ma a detta sua rispecchia non più del dieci per cento del processo complessivo. «Poi devi conoscere il mercato, i clienti, gli utilizzatori finali. Mi piace usare quest’immagine: l’innovazione è un processo simile alla raccolta delle ciliegie. Un innovatore, spesso, si trova davanti a molti principi di design, pezzi di conoscenza, informazioni sul mercato, e deve scegliere quali cogliere, e quali no, per preparare la sua torta». Che non sarà mai davvero pronta una volta uscita dal forno. O, per uscire dalla metafora, non basterà aver sviluppato un’ottima tecnologia per far sì che essa venga adottata dal mercato. Lasciamo per un momento in sospeso questa riflessione che tornerà più avanti.
2. CONTAMINAZIONE. Riprendendo invece l’immagine del raccoglitore di ciliegie, arriviamo al secondo abilitatore, ossia la contaminazione. In un laboratorio come quello di Vitiello c’è infatti una grande commistione di competenze, che fondamentale trovare, riunire e coordinare: ingegneri con varie specialità (biomediche, bioniche, meccaniche, elettroniche) ma anche psicologi, medici del lavoro e fisiatri. «Quello che ho imparato, e che all’inizio ignoravo, è che se vuoi fare innovazione devi lavorare con le persone giuste. Dopo averle scelte e messe in squadra, il ruolo dell’innovatore è davvero vicino a quello di un allenatore di calcio: ci sono squadre molto forti e solide che ottengono risultati anche senza avere grandi campioni, e squadre che i grandi campioni li hanno ma non riescono a vincere la Champions League».
3. PROFESSIONISTI. Quanto detto non significa che coordinare questa complessità sia cosa semplice, ma a detta di Vitiello è un aspetto da affrontare e accogliere senza paura. E senza far finta di sapere tutto. Un ingegnere non ha tutte le competenze necessarie per avviare un’azienda, ed ecco allora che entra in gioco il terzo degli abilitatori dell’innovazione: il ruolo degli intermediari, dei professionisti a cui affidarsi e il delicato equilibrio fatto di fiducia e rapporti contrattuali che sostanziano una funzionale distribuzione dei compiti. Il ragionamento di Vitiello a questo proposito parte da un presupposto: non essere troppo gelosi della propria idea. «Quando ho capito che volevo creare l’azienda non me lo sono tenuto per me. Alla Scuola Sant’Anna c’è una grande attenzione al trasferimento tecnologico ed è all’ufficio di Valorizzazione della Ricerca che mi sono rivolto quando ho iniziato a pensare di voler aprire l’azienda IUVO. Per come ragiono io, è stato molto utile, perché raccontando agli altri il progetto ho iniziato a capirlo meglio, a rendermi conto di cosa mi serviva e delle professionalità che dovevo coinvolgere.
E se condividere il proprio progetto con gli intermediari è stato fondamentale, altrettanto importante è stato capire in che momento arrivare con loro alla firma di un contratto. Anche perché, quando si parla di innovazione, ci si confronta con questioni che non è sempre facile mettere per iscritto nel dettaglio. «In un processo così complesso, c’è tutta una parte di interazione che precede il momento in cui ci si presenta davanti al notaio: fino a quel momento bisogna avere fiducia. Io sono stato sempre fortunato, il che per me significa aver avuto la fortuna di incontrare le persone giuste».
4. PARTNER INDUSTRIALI. Una fortuna che lo ha riguardato anche per quanto riguarda il quarto pilastro, ossia il ruolo dei partner industriali. In IUVO queste figure si sostanziano in nomi come Comau, Ossur e Stellantis, e il loro apporto da Vitiello non viene interpretato esclusivamente come quello dei partner che li hanno portati sul mercato, ma come realtà che hanno deciso di condividere con IUVO il rischio. «Loro hanno portato lo spirito manageriale, ingrediente fondamentale per dare modo all’imprenditore di lavorare su un processo innovativo. Le persone che abbiamo incontrato in queste realtà hanno capito la potenzialità della tecnologia e ci hanno aiutato a convogliare una grande quantità di energie nella giusta direzione. È stato un modo per mitigare il rischio di fallimento».
5. GIOCO DI RUOLO. E sempre parlando dell’importanza delle persone, in un contesto di innovazione capita spesso che a coloro che sono coinvolti venga chiesto di cambiare ruolo. È il quinto e delicato aspetto che abbiamo deciso di considerare tra gli abilitatori di una strategia di Open Innovation. Nel caso di IUVO, la dinamica è stata varia. Ci sono stati dei punti fermi, come l’ufficio di trasferimento tecnologico e i partner industriali, ma anche persone che hanno cambiato ruolo. «La maggior parte degli impiegati di IUVO erano ricercatori e scienziati accademici e ora sono esperti nello sviluppo di prodotto. Quando trasferisci tecnologia, trasferisci anche persone e non devi essere spaventato dal fatto di mettere in gioco risorse, di portare a bordo accademici affinché diventino esperti nello sviluppo di prodotto. La cosa fondamentale per noi è stata avere chiaro ciò che volevamo: sviluppare un prodotto di successo. E il segreto per farlo, e che non ho inventato io, è iniziare dai clienti».
6. CRESCITA. Lo sviluppo c’è stato e infatti IUVO si è trasformata, da spin-off della Scuola Sant’Anna a start-up che cresce, assume, si espande. La crescita è quindi il sesto punto. La crescita cambia tutto. Per spiegare come questa sia avvenuta in IUVO, Vitiello spiega che l’asset alla base è sempre stato sapere quale fosse il problema. «Nell’open innovation c’è sempre il rischio di non sapere quale sia il nodo da sciogliere. Tornando al concetto della raccolta delle ciliegie, devi capire qual è quella giusta da raccogliere, e quale no». La scelta strategica è quindi alla base, e ciò significa soprattutto decidere cosa non fare, piuttosto che cosa fare. «Per noi la sfida era sempre chiara: nella robotica indossabile una volta che sviluppi una tecnologia, e quindi un prodotto, devi poi capire come fare a renderlo largamente adottabile». Crescere vuol dire dunque saper scegliere e scalare focalizzando le risorse nella direzione giusta. Crescere vuol dunque dire anche scegliere cosa non fare più.
7. VALORE. Siamo arrivati all’ultimo degli abilitatori. Come si può misurare quanto incida la proposta valoriale dell’azienda nella percezione dei clienti? O detta più semplicemente: saremo capiti? «Questa è la vera sfida: quando vi ho detto che la tecnologia è solo il dieci per cento della storia, significa che la parte restante sta nel modo in cui dimostri il valore del prodotto sotto vari punti di vista. La maggioranza delle cose con le quali ci si scontra non sono le tecnologie, ma le barriere all’adozione della tecnologia da parte del mercato. Non è inusuale che le aziende high tech falliscano proprio perché sottovalutano l’importanza di questo aspetto». Ed ecco che, concludendo il nostro discorso, torniamo circolarmente a quell’aspetto già citato nel primo degli abilitatori, l’applicazione tecnologica: a quanto sia importante e al tempo stesso parziale, perché parte di un processo che, come abbiamo visto, coinvolge molti aspetti, ma alla fine, deve creare valore per qualcuno.
Di Alberto Di Minin e Norma Rosso