Non ci stancheremo mai di dire che innovazione non fa rima con invenzione.
Così come non si stanca Sabrina Conoci, ordinaria di Fisica della materia presso l’Università di Messina e co-fondatrice di Innova biomedical technology, la startup nata come spinoff dell’università messinese che si occupa di dispositivi medici di tipo ortopedico.
C’è anche un altro concetto che Conoci ritiene prioritario, ed è la necessità di un cambiamento del mondo della ricerca verso un’apertura alla multidisciplinarietà. «Oggi il sistema italiano prevede l’inquadramento di ricercatrici e ricercatori in settori scientifici disciplinari, cosa che di fatto limita molto il loro operato. Per fare carriera a livello accademico non è possibile andare fuori settore, salvo essere penalizzati. Questa è una forte contraddizione, anche rispetto a quello che stanno facendo gli altri paesi: la multidisciplinarietà è un valore aggiunto, perché riesce a compenetrare vari settori. Solo così si creano soluzioni che hanno più probabilità di innovare».
Conoci lo ha visto accadere nella sua carriera. Dopo la laurea in Chimica industriale e il dottorato in Ingegneria dei materiali, ha seguito un percorso formativo di Management della ricerca industriale, erogato all’epoca da ENI e ricerche. «Sviluppare conoscenze in ambito gestionale è molto importante: per seguire e mettere a terra un’idea, bisogna avere molti strumenti differenziati, altrimenti tutte le idee nate in laboratorio non riescono a uscire e fare sistema». Dopo la formazione, ha iniziato a lavorare per STMicroelectronics, la grande multinazionale di semiconduttori italiana e francese con sedi produttive anche a Catania e Agrate, ora in grande ascesa e sviluppo perché impegnata sui dispositivi per le auto elettriche.
In quasi 20 anni di carriera in ST, Conoci ha sempre lavorato gestendo la ricerca e sviluppo di tecnologie non convenzionali: si è occupata di tecnologie avanzate, di medio e lungo periodo, per nuove applicazioni e prospettive. È stata la prima persona in azienda a portare in qualifica la prima biotecnologia di ST, ovvero un biochip per l’analisi del DNA. «Una soluzione tutt’altro che convenzionale per la microelettronica, per la quale siamo partiti dal laboratorio, creando poi tutto il percorso tecnico di documentazione e regulatorio per l’immissione sul mercato». Attualmente il prodotto si vende a Singapore, si chiama Labonchip ed è valso a Conoci vari riconoscimenti nonché la soddisfazione di aver creato tutta la procedura per i dispositivi medici in ST. La storia di Labonchip meriterebbe un approfondimento, l’abbiamo seguita nella sua genesi e rappresenta un unicum per lo sviluppo e per l’applicazione di una gestione dell’innovazione veramente interessante. Ai più curiosi suggeriamo la lettura del pezzo di Cesaroni e Piccaluga pubblicato qualche anno fa su California Management Review.
Nel 2019 Conoci vince il concorso e diventa professoressa ordinaria a Messina, dove crea dei laboratori jointed con ST: l’azienda trasferisce attrezzature per un valore di diversi milioni di euro presso l’università e viene creato un laboratorio gemello a Bologna, dove Conoci è professoressa co-shared. Oltre all’insegnamento, il suo ruolo all’interno dell’università è infatti quello di delegato alla Terza Missione, all’interno del quale coordina i rapporti con le aziende: ciò si estrinseca attraverso la creazione di strumenti come i jointed lab con aziende e centri di ricerca. A questi si è aggiunto di recente il CNR che, all’interno dei lab Jointed con ST, ha creato una sede della sua infrastuttura Beyond Nano che si occupa di sviluppare tecnologie sensoristiche innovative.
Nonostante l’accesso all’accademia non sia facile per gli esterni – soprattutto con un percorso multidisciplinare come il suo – Conoci ha ottenuto sette abilitazioni a professore ordinario: in fisica, chimica e ingegneria. Prova del fatto che la multidisciplinarietà serve e si riesce a fare anche in Italia, ma con fatica, considerando il fatto che si tende a penalizzare chi decide di percorrere più strade.
«Se vogliamo vincere la sfida dei prossimi anni, bisogna pensare a una riforma seria e rivoluzionaria dell’accademia. Oggi i processi non sono strutturati per far emergere il meglio, e a questo si aggiunge la burocrazia che spesso non solo rallenta, ma in molti casi soffoca la ricerca». In un ambito in cui la mente ha bisogno di essere continuamente stimolata, un sistema di gestione dei processi eccessivamente farraginoso distoglie e inibisce la creatività: stare dietro ai processi burocratici richiede infatti molto tempo, che viene sottratto alla ricerca. «La burocrazia», sottolinea Conoci, «dovrebbe essere strutturata per dare supporto alla ricerca e non rappresentare una barriera!».
«Anche sulla formazione, c’è bisogno di una riflessione seria: molte aziende non trovano laureati. Ci sono profili che non sono aggiornati rispetto a ciò che serve oggi alle imprese. Il capitale umano è fondamentale per il futuro del nostro paese e la creazione di profili formativi che incontrano le richieste delle aziende rappresenta una grande opportunità per le nostre Università. Bisogna fare sistema, come fanno le nostre cellule, e creare modelli che collaborino e insieme si rafforzino, senza inutili individualismi».
Quello a cui bisogna arrivare, secondo noi, e il caso di Sabrina lo dimostra bene, è lo sviluppo di carriere che si articolano anche grazie ad avanzamenti in diagonale: dopo alcuni anni da quadro o dirigente in un’azienda io dovrei avere la possibilità di valorizzare il mio percorso vedendomi riconosciuto il mio vissuto professionale in ambiti accademici, come docente. Dopo anni di ricerca, anche il privato dovrebbe riuscire a riconoscere la mia seniority e propormi una posizione adeguata alle mie competenze. Questi salti tra il pubblico e il privato, dalla ricerca all’industria, da una mansione ad un’altra potrebbero essere incentivati con politiche attive che supportano le aziende e le istituzioni che favoriscono questi passaggi in diagonale.
Di Alberto Di Minin e Norma Rosso