Si conclude il corso di China Issues con l’intervento di Simone Padoan, consulente e manager nell’ambito delle relazioni strategiche, delle relazioni internazionali e dello sviluppo sostenibile delle imprese e dei territori. Padoan è segretario generale di EEGEX, una organizzazione non-profit che promuove il trasferimento di competenze e tecnologico nei settori dell’ambiente e dell’energia tra Italia e Paesi esteri. Nel corso degli anni ha partecipato a Think Tank nazionali ed internazionali ed occasionalmente insegnato presso alcuni master universitari, come docente a contratto. Ha svolto attività in Cina dal 2011, anche nell’ambito del Sino-Italian Cooperation Program for Environmental Protection ed è stato vice coordinatore del gruppo di lavoro Energia e Protezione Ambientale della Camera di Commercio Italia in Cina dal 2021 al 2023. A novembre 2024 ha pubblicato il rapporto “Il Green Business in Cina”
Quali ritiene siano gli elementi principali della transizione della Cina verso uno sviluppo più sostenibile?
Il tema della Sostenibilità, per quanto riguarda tutti e tre i suoi pilastri fondamentali, Economia, Società e Ambiente, è un elemento costantemente presente nelle politiche cinesi sin dal XI° Piano Quinquennale 2005 – 2010. Con l’inizio della Presidenza di Xi Jinping, la sostenibilità è diventato uno degli assi portanti della pianificazione strategica e persino della sicurezza nazionale della Cina. A spingere il governo cinese in questa direzione concorrono uno sviluppo sociale disomogeneo, un sistema economico ancora troppo ancorato agli investimenti ed una fragilità ambientale che sta presentando un conto salato, aggravata da una pressione climatica regionale che sta diventando insostenibile, con sempre più frequenti inondazioni che hanno messo a rischio anche la sicurezza alimentare del Paese, alternata a siccità che hanno avuto impatti pesanti anche sul sistema energetico, come messo plasticamente in evidenza dalla crisi energetica del 2022, causata da un dimezzamento dell’apporto energetico dell’idroelettrico. Sostenibilità per la Cina significa raggiungere un cambiamento progressivo ma radicale del proprio paradigma economico, con una diffusione del benessere sociale più capillare, anche se più lenta, e con un’attenzione ambientale ed ecologica che metta in sicurezza l’intero Paese. La Cina è, ormai da anni, il Paese che investe di più al mondo in tutela ambientale, dal 2017 al 2024 ha riorganizzato l’intera filiera della gestione dei rifiuti, dal 2016 ha ristrutturato i meccanismi di gestione amministrativa ed operativa dei grandi bacini idrici (che in Cina sono qualcosa di mastodontico, anche solo considerando il solo bacino del fiume Yangtze con i suoi 6300 km di lunghezza), ha implementato politiche molto aggressive di lotta alla desertificazione ed ha assunto un chiaro impegno in termini di decarbonizzazione dell’economia, seguito da fatti concreti.
Dal 2024, il Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese ed il Consiglio di Stato hanno rilasciato una serie di documenti congiunti che identificano le linee guida per le future azioni governative ed amministrative della Cina in materia di sostenibilità, che si articola in (1) accelerare la trasformazione verde e a basse emissioni di carbonio della struttura industriale, (2) promuovere costantemente la trasformazione energetica verde e a basse emissioni di carbonio, (3) promuovere la trasformazione verde dei trasporti, (4) promuovere la trasformazione verde dell’edilizia e dello sviluppo urbano e rurale, (5) implementare una strategia di conservazione olistica (che comprende energia, risorse ed economia circolare) e (6) promuovere la trasformazione verde dei modelli di consumo.
La Cina ha annunciato importanti investimenti nelle energie rinnovabili e nell’idrogeno. Secondo lei, riuscirà a rispettare i suoi impegni per la decarbonizzazione, nonostante le pressioni economiche e strategiche, interne ed esterne?
La Cina raggiungerà i suoi obiettivi proprio per risolvere le proprie pressioni interne. Al momento, la Cina è il più grande Paese al mondo, in termini di dimensione economica e di numero di abitanti, che sostiene l’Accordo di Parigi, impegno ribadito anche dopo l’inizio dell’Amministrazione Trump che ha ritirato gli USA dall’Accordo (per la seconda volta). La Cina non è stato tra i primi Paesi firmatari a dichiarare i propri obiettivi di decarbonizzazione, ma quando lo ha fatto, con il XIV° Piano Quinquennale, he definito l’obiettivo di picco di emissioni climalteranti al 2030 e l’obiettivo della neutralità carbonica al 2060. Una scadenza, quest’ultima, di dieci anni più lunga rispetto al 2050 adottato da ben 121 dei 190 Paesi sottoscrittori dell’Accordo, tuttavia un impegno di carattere strategico per il governo cinese, dato che inserisce la riduzione della dipendenza dal carbone e l’aumento dell’utilizzo delle energie da fonti rinnovabili nel contesto della sicurezza nazionale. Dal punto di vista tecnico, la National Development and Reform Commission (NDRC), già nel rapporto Renewable Energy Outlook del 2020, aveva evidenziato scenari tecnici in cui la Cina poteva raggiungere gli obiettivi di neutralità carbonica ben prima del 2060. La scelta di questa scadenza, quindi, è più di natura politica che tecnica ed è volta a dare più tempo ed agio alla propria struttura interna per raggiungere l’obiettivo. Sul piano tecnico, la Cina ha agito rapidamente con la riforma integrale del mercato energetico, con l’avvio e l’allargamento del mercato del Carbonio, sia per le quote obbligatorie che per quelle volontarie, ed il raggiungimento di oltre 1200 GW di potenza installata da fotovoltaico ed eolico entro il 2030. A fine 2024 erano attivi cantieri per l’installazione di quasi 339 GW di grandi impianti fotovoltaici ed eolici direttamente connessi alla rete elettrica, pari a circa due terzi di tutti i cantieri al mondo.
Come valuta le prospettive di collaborazione nel settore del green business tra Cina, Unione Europea e Stati Uniti, alla luce dei recenti sviluppi internazionali?
In questo preciso momento storico, le future relazioni tra Cina e USA sono del tutto impredicibili, sia per i rapporti politici, sia perché sembra che il green business in senso lato goda di bassa priorità ed interesse da parte USA, ad esclusione del tema dell’utilizzo delle terre rare nel settore energetico ed automotive, su cui si prospetta più uno scenario di forte competizione diretta che di cooperazione.
Le relazioni tra UE e Cina godono di un quadro più stabile, ma non certo idilliaco, con il riconoscimento della Commissione Europea della necessità di stabilire un quadro di cooperazione attiva con la Cina per la mitigazione degli impatti climatici e di confronto ed accordo per quanto riguarda l’organizzazione delle filiere tecnologiche. Mentre la Cina ha facile accesso al mercato UE (basta pensare al solo settore fotovoltaico e a quello dei sistemi di accumulo), l’accesso allo spazio economico cinese rimane problematico. Il mercato cinese è certamente in crescita, sia nel settore energetico che in quello ambientale, ma ha una struttura complessa che non agevola l’ingresso di operatori esteri. In primo luogo, la spesa pubblica ha ancora un ruolo determinante e la legge cinese sul Public Procurement del 2002 indica chiaramente, nell’articolo 10, il principio dell’acquisto “Made in China”. L’accesso diretto agli appalti di fornitori stranieri si giustifica come eccezionalità ed accade sempre più di rado, da quando la Cina non riconosce più il gap tecnologico con altri Paesi con il varo del Piano “Made in Cina 2025”. Questo implica che per accedere al mercato cinese bisogna anche investire localmente ed organizzare politiche di trasferimento tecnologico, cosa non semplice sia sotto il profilo del business che di quello di tutela della proprietà industriale ed intellettuale, ma comunque non impossibile. Anche l’investimento in Progetti in Partenariato Pubblico Privato, uno degli strumenti principali dello sviluppo del settore in Cina, è formalmente possibile per operatori stranieri, ma praticamente quasi impossibile senza un Investimento Diretto in Cina. Lo spazio di mercato c’è ed importanti aziende europee hanno saputo organizzare una significativa presenza, ma l’accesso a quel mercato richiede capacità e preparazione non alla portata della maggior parte delle PMI italiane, a meno che non si organizzino in strutture più complesse ed aggregate. Aiuterebbe riprendere in mano l’iter di ratifica del CAI (EU – China Comprehensive Agreement on Investment), eventualmente con un adeguamento che tenga conto dei mutamenti intercorsi dalla sua approvazione da parte della Commissione Europea nel 2020.
Vale la pena sottolineare che in Cina permane un notevole bisogno di Capacity Building, sia all’interno delle strutture amministrative che di quelle aziendali; questo potrebbe essere un aspetto interessante di sviluppo di cooperazione, con il coinvolgimento di Istituzioni, Università ed imprese.
Di Alberto Di Minin e Jacopo Cricchio