Henry Chesbrough è un professore di Berkeley. Sono passati più di dieci anni da quando ha coniato il termine “Open Innovation” e dato vita ad una linea di ricerca in cui mi sento felicemente coinvolto. Ho già scritto di lui in #Fuoriclasse ma ora ritorno a parlare di Henry per raccomandarvi una lettura utile per inquadrare concetti piuttosto rilevanti per l’innovation policy & management.
Il breve saggio pubblicato da ESADE: “From Open Science to Open Innovation”, e presentato da Chesbrough la settimana scorsa a Bruxelles, propone un’elegante ricostruzione del ruolo dell’Open Science nel corso degli ultimi due secoli: di come scienza e tecnologia hanno contribuito allo sviluppo culturale ed economico del mondo occidentale.
Chi conosce Chesbrough sa quanto sia bravo a rendere estremamente semplice concetti tutt’altro che banali e anche in questo pezzo, l’autore americano concentra la nostra attenzione su un punto fondamentale: i ricercatori, gli scienziati ignorano molto spesso il contesto applicativo, le sue limitazioni, le priorità da considerare nel passare dalla teoria alla pratica, all’applicazione commerciale. Nessuno, studiando le proprietà fondamentali dei laser si sarebbe potuto attendere che una delle applicazioni di queste tecnologie avrebbe rivoluzionato l’industria della musica e dell’entertainment con lettori CD e DVD.
Partendo dalle riflessioni di Chesbrough possiamo dire che i principi dell’Open Science, che sono alla base di una scuola di pensiero sempre più ascoltata sia negli Stati Uniti che in Europa, sono condizioni abilitanti per lo sviluppo di innovazione che trova le sue fondamenta nella commercializzazione di scienza e tecnologia. Condizione importante, sempre più rilevante, ma non sufficiente. Open Science non è sinonimo di Open Innovation.
Uno dei passaggi che i groupies di Chesbrough si aspettano di applaudire nei suoi articoli è il confronto tra sistema di innovazione chiuso e sistema di innovazione aperto, che Henry sa declinare per i suoi fan in contesti sempre diversi. In questo paper il punto chiave è molto chiaro: sistemi di innovazione diversi richiedono istituzioni di supporto all’innovazione diversi. Si prenda ad esempio quali istituzioni possono supportare un sistema dell’innovazione chiuso. Quando è la grande industria a dominare lo sviluppo tecnologico, l’obiettivo delle politiche è quello di creare grandi monopoli o oligopoli delle conoscenze: l’ipotesi di fondo è che solo raggiungendo enormi economie di scala si possa raggiungere risultati alla frontiera dell’innovazione. Questo è stato il modello dominante dai tempi dello sviluppo dell’industria chimica tedesca dell’ottocento, al dominio di Bell Labs e Big Blue negli States. Ecco che dunque tax credit, finanziamenti pubblici per la scienza di base, protezione della proprietà intellettuale e supporto di grandi champions dell’industria rappresentano i pilastri di una politica industriale in tale contesto.
Questo mondo, insiste Chesbrough, non esiste più. Tanti fattori, ma tra essi in particolare lo sviluppo dell’ICT, hanno abilitato una diffusione delle conoscenze scientifiche e tecnologiche senza precedenti: uno sviluppo che ha oggi reso il dialogo scientifico la dimensione più globalizzata della nostra civiltà. Inevitabile che in questo contesto i principi dell’Open Science siano sempre più rilevanti, e appunto abilitanti di un ulteriore sviluppo scientifico. Ma non solo: la diffusione delle conoscenze è una delle dimensioni abilitanti più rilevanti anche per l’Open Innovation. Il lavoro di Chesbrough e dei suoi allievi è guidato dalla necessità di comprendere quali siano le implicazioni strategiche e organizzative dell’idea che nessuno è in grado di dominare tutte le conoscenze rilevanti per portare sul mercato un nuovo prodotto/servizio.
In un sistema di Open Innovation acquisiscono centralità la dimensione di innovazione dei modelli di business, una gestione strategica della proprietà intellettuale, pressioni diverse su risorse umane, contratti di fornitura, rapporti con enti di ricerca e partner industriali.
Ma quali sono le istituzioni di supporto di un sistema che partendo dai principi dell’Open Science vuole realizzare percorsi di open innovation?
Il punto centrale di questo saggio è che politiche industriali a supporto dell’Open Innovation dovrebbero mettere al centro la specializzazione. Se l’innovazione non è più una estenuante maratona ma una veloce corsa a staffetta, gli staffettisti non hanno altra scelta se non diventare particolarmente bravi nel percorrere il tratto di pista a loro dedicato. Non ha più senso sostenere lo sviluppo dei grandi innovation champions, non sono più necessari grandi monopoli delle conoscenze. Specializzazione, nell’accezione di Chesbrough vuol dire in particolare lo sviluppo dei mercati di conoscenza e tecnologia, il supporto alle start-up e spinoff accademiche, le SME come strumento di sviluppo di progetti innovativi che possono essere a loro volta acquisiti dalle grandi imprese. I monopoli e gli oligopoli della conoscenza di un tempo non esistono più sono stati sostituiti da un concetto più nuovo di piattaforma, modulare e aperta: ma anche orchestrabile tramite modelli di business.
Chesbrough guarda con occhi americani ai passi avanti che l’Europa sta facendo in questi anni: cita i KIC, IMEC in Belgio, il modello del Fraunhofer (LINK) e il consorzio ATTRACT, casi che ha studiato e che conosce. Non se la sente di dare ancora un endorsement (se non in nota) ad Horizon, sebbene tramite Horizon stiano piovendo su SME di tutta Europa centinaia di milioni di euro in finanziamenti, e che le misure Access to Risk Finance mettano proprio al centro della loro azione il supporto alla commercializzazione di scienza e tecnologia. Sarebbe stato utile se Chesbrough ci avesse indicato quali iniziative stelle e strisce sarebbero da prendere in considerazione come modelli di istituzioni open innovation.
Oh beh: glielo chiederemo a Pisa, Chesbrough sarà uno dei keynote dell’R&D Management Conference di giugno presso la Scuola Superiore Sant’Anna.