Sulla scia della ricerca di “pillole di innovazione” dal mondo Life Science, risponde alle nostre domande Eugenio Aringhieri il quale, in qualità di CEO del Gruppo Dompé, si interfaccia costantemente con le evoluzioni nel mondo della ricerca.
In che modo i concetti di innovazione e di “innovazione aperta” vengono concepiti da un’azienda attiva nel mondo biotech?
Solo una ricerca che esplora nuovi approcci e che usa una (più) evoluta cassetta degli attrezzi tecnologica saprà fornire le risposte alle domande di salute ancora inevase in settori ad alto bisogno terapeutico come l’Oncologia, la Neurologia, le Malattie autoimmuni e le Malattie Rare: ad oggi circa il 20% dei farmaci in commercio sono biotecnologici, il 50% di quelli in sviluppo sono biotech o da terapie avanzate: da ciò si può predire che in 15 anni l’armamentario terapeutico del medico sarà principalmente biotech.
Lo sviluppo tecnologico offre quindi essenziali nuove prospettive ma allo stesso tempo impone nuovi modelli più partecipati dove la connessione rappresenta la modalità per mettere a fattor comune le diverse competenze e risorse. La partita oggi si può giocare sulla base delle competenze distintive costituite dal sapere fare e dalla capacità di connettersi creando reti internazionali altamente qualificate. Ciò è fondamentale soprattutto per le imprese italiane per rafforzare il proprio posizionamento nello scenario competitivo di oggi: dopo essere rimasti esclusi da partite a livello globale, dove la leadership di costo rappresenta l’unico vero vantaggio competitivo, l’Italia ha invece grandi opportunità da esplorare nei settori ad alta complessità, ed in particolare in quello del Life Science.
Per quanto riguarda invece i modi di portare avanti i processi innovativi, l’intero settore ha ormai compiuto una transizione da un modello chiuso (con la R&S condotta per l’80% dei casi all’interno del propri laboratori) ad un approccio che riconosce che le competenze interne non sono sufficienti per fronteggiare le complessità delle sfide odierne nel mondo della Ricerca.
Oggi il concetto di Open Innovation fa ormai parte integrante delle Scienze della Vita e si può condensare in due parole chiave: Connessione e Contaminazione.
– Per poter iniziare portare a termine un iter di innovazione, una connessione tra diversi soggetti è fondamentale. Da un lato ci sono le startup e le università, in cui c’è una disponibilità a pensare in modo e che rispetto alle imprese hanno un potenziale maggiore di dar vita a proposte/invenzioni che creano discontinuità; dall’altro lato ci sono le aziende, che invece possiedono l’insieme di risorse, competenze, relazioni e energie per mettere a terra i frutti dell’ingegno facendoli recepire ad una massa critica.
– La contaminazione invece riguarda le competenze, che in questo settore sono rese sempre più trasversali dal processo di digital trasformation che vede la tecnologia e la scienza dal sequenziamento del genoma andare avanti insieme “a balzi”, trainate in primo luogo dalla sensorializzazione e dalla capacità di analisi dei Big Data: una prova tangibile di tale fertilizzazione incrociata è data dalla recente approvazione da parte della FDA della prima digital drug in campo neurologico, la quale, grazie ad un sensore collegato al farmaco, trasmette informazioni e regola la frequenza di somministrazione.
Può farci un esempio di come Dompè ha messo in pratica il concetto di OI?
Sicuramente il Nerve Growth Factor (NGF) rappresenta un esempio di scuola di OI. La storia inizia con una scoperta che nasce nell’Università (luogo di innovazione per eccellenza) e che ha avuto un accreditamento indipendente universalmente riconosciuto: il premio Nobel alla Professoressa Rita Levi Montalcini. La scoperta si è trasformata poi in una startup grazie all’intuito, la capacità ed il coraggio degli scienziati italiani di Anabasis, attraverso un passaggio-chiave per la trasformazione del valore scientifico della scoperta in valore economico: l’azienda (allora startup) ha lavorato per sviluppare una validazione del concetto (proof of concept) solida e robusta attraverso studi la cui validità è stata comprovata da pubblicazioni scientifiche di alto livello. In tale processo è infine entrata l’impresa (Dompé in questo caso) che attraverso un trasferimento tecnologico ha percorso l’ultimo miglio mettendo a punto l’industrializzazione, lo sviluppo ed il processo regolatorio globale, che hanno trovato un accreditamento indipendente di qualità nell’approvazione per la commercializzazione in Europa da parte dell’EMA e nell’assegnazione dello stato di Breakthrough Therapy da parte di FDA.
Una vera e propria staffetta che nella connessione e nella messa a fattor comune delle diverse competenze (Università/ Spin Off /Impresa) e nell’accreditamento indipendente (Nobel/Pubblicazioni Scientifiche/Agenzie Regolatorie) mostra la potenza del Made in Italy.
Quali sono i punti di forza e di debolezza dell’ecosistema innovativo italiano rispetto alle dinamiche di OI?
Il nuovo “Rinascimento Italiano nel Life Science” è iniziato, come testimoniato dal fatto che ben 3 sulle 6 terapie avanzate approvate da EMA arrivano dalla Ricerca Italiana, oltre che dalla recente storia di “EMA2Milan”, in cui il nostro Paese si è distinto per la capacità di lavoro di squadra e per un forte accreditamento in Europa (pur essendo finita male, i 50 voti sono stati la prova che c’è legittimazione per quanto riguarda il settore farmaceutico). E’ quindi necessario impegnarsi a proseguire su questa strada! Il settore Life Science già rappresenta una opportunità per l’Italia per dimensione di ricavi (30 miliardi), per dimensione di export (con il 70% siamo primi in Europa) e per crescita. A ciò si affiancano altri punti di forza:
– un sistema universitario altamente qualificata che si trova ai primi posti nelle classifiche in quanto a qualità delle pubblicazioni;
-un’industria farmaceutica (con il suo personale altamente qualificato) che sta spingendo sulla produzione e l’export e che continua a credere nel Paese;
– le Istituzioni che con le ultime scelte fatte (credito d’imposta, patent box, ItaTech etc..) hanno dimostrato di cercare meccanismi di premialità per chi fa R&S e di riconoscere il valore strategico della ricerca scientifica.
Insomma, l’Italia ha tutte le carte in regola per impegnarsi nella partita dell’innovazione e ha anche buone chances di essere un attore vincente. Dato che l’open innovation offre grandi potenzialità nel campo della Ricerca Innovativa e alla luce dei suddetti elementi-chiave italici, connessione e contaminazione possono e devono essere messe a frutto.
Tuttavia, per permettere al Paese di dispiegare le sue potenzialità appieno, sarebbe necessario risolvere al più presto alcune criticità per creare un vero e proprio ecosistema dell’innovazione capace di attirare investimenti e di competere nella sfida globale, attraverso un serie di interventi a più livelli:
– Ad un livello strategico, si vive un problema di asincronia tra le tempistiche politico-legislative e quelle di pianificazione nel mondo Life Science: dal momento che nel settore in questione sono necessari almeno dieci anni per portare un prodotto dal laboratorio al Paziente, servirebbe un vero e proprio Piano Strategico dell’Innovazione che tracci la rotta in un modo indipendente dalle legislature e che in qualche modo le superi.
– Per quanto riguarda l’aspetto più tattico ma non secondario riguardante le procedure di accesso alle cure innovative, la parcellizzazione burocratica e la frammentazione inter-regionale spesso impediscono un approccio universalistico: la regolamentazione di un settore che come “Cliente” finale ha il Paziente è giusta e doverosa, ma si sottolinea comunque il bisogno di una governance centrale su aspetti di accesso che non dovrebbero (non possono) variare a seconda del codice postale del Paziente.
– Infine, c’è un aspetto “tecnico” chiave che in Italia riguarda i processi di trasferimento delle conoscenze dai luoghi della ricerca (fonte primaria di innovazione) alle aziende. Abbiamo avuto ed avviamo esempi eccellenti di Technology Transfer ai quali ispirarsi, ma sicuramente li si potrebbe incentivare operando una mappatura delle eccellenze nel mondo della ricerca e costituendo dei veri e propri Hub di Conoscenze per supportare i processi nelle diverse prospettive e Valorizzare al contempo le differenze regionali.
Questa è la sfida che è stata lanciata durante l’ultimo Technology Forum organizzato da The European House Ambrosetti a Milano lo scorso Ottobre e che è stata condivisa dai Ministeri e raccolta da Alisei. C’è ancora del lavoro da fare ma l’Italia può chiudere il gap se i vari attori coinvolti faranno squadra e convergeranno sugli obiettivi.
Di Luisa Caluri e Alberto Di Minin