Open Innovation senza controllo. La logica dell’influenza.

Di seguito il contenuto della conversazione con Henry Chesbrough, a pochi giorni dalla World Open Innovation Conference di San Francisco.

 ADM: Caro Henry, Mi piacerebbe innanzi tutto partire dai tuoi lavori più recenti. Ho letto insieme ai miei studenti alcuni tra gli articoli che hai pubblicato negli ultimi anni, ecco alcune domande per te. Nel tuo recente articolo con Tobias Weiblen sostieni che, per avere successo, le grandi imprese debbano innovare insieme alle startup. In più, aggiungi che nei modelli organizzativi emergenti in cui si sviluppano queste interazioni, il capitale proprio tende ad essere sostituito da investimenti congiunti in tecnologia, che hanno la funzione di “unire i due mondi”. Come sta avvenendo tutto ciò? Puoi farci alcuni esempi?

 HC: Le grandi aziende esercitano abitualmente un forte controllo nei progetti di open innovation, e vogliono mantenere saldamente la guida soprattutto nelle collaborazioni con le startup.

In questo ruolo, le grandi imprese sono facilitate dalla disponibilità di risorse e dal forte potere contrattuale che sono in grado di esercitare sulla controparte.

Una tale gestione “manageriale” delle collaborazioni tecnologiche può tuttavia oggi rappresentare un problema: semplicemente richiede troppo tempo!

I processi decisionali delle grandi imprese non sono, in altre parole, sufficientemente rapidi per potersi adattare ad ambienti turbolenti, che si muovono velocemente. In un mondo dell’innovazione che è recentemente stato ribattezzato VUCA world (Volatile, Uncertain, Complex and Ambiguous), velocità di azione e capacità di adattamento sono le doti necessarie per avere successo.

Il nuovo modello di relazioni per la grande impresa dovrebbe dunque basarsi su una logica di influenza piuttosto che di controllo. Il beneficio che deriva dall’alleggerire la componente di controllo è quello di essere in grado di prendere decisioni più velocemente.

Per fare un esempio, gli AT&T Foundry innovation centers invitano gli imprenditori alla guida di startup a condividere le proprie proposte di collaborazione con AT&T. Se una proposta viene valutata positivamente e dunque accettata, l’imprenditore viene invitato a trascorrere tre mesi alla Foundry, presso la quale lavorerà insieme al team di tecnici AT&T per sviluppare un prototipo o effettuare verifiche di fattibilità (proof of concept). Dopo tre mesi, il risultato della ricerca collaborativa viene condiviso con le varie divisioni di business di AT&T. In caso di mancato interesse da parte dell’azienda a proseguire, il rapporto di collaborazione termina ma l’imprenditore mantiene i diritti di proprietà intellettuale, ed ha dunque l’opportunità di sviluppare il proprio progetto in altre direzioni.  Solo nel momento in cui una o più unità di business interne ad AT&T dimostrano interesse per i risultati del progetto di ricerca collaborativa, il rapporto viene formalizzato dal punto di vista della gestione dei diritti di proprietà intellettuale e del protocollo di ricerca e sviluppo.

ADM: Hai scritto un bellissimo caso di studio sull’ Open Innovation in una grande impresa italiana, ENEL. Quali sono le “cose da ricordare” maggiormente, gli esempi da portarsi dietro, e cosa pensi delle mosse che ENEL ha fatto nel suo percorso di Open Innovation?

HC: ENEL è un’azienda di utilities molto insolita, di cui l’Italia può andare orgogliosa. Il suo amministratore delegato e direttore generale, Francesco Starace, non adotta il linguaggio tipico dei manager delle aziende di produzione e distribuzione di energia, e non interpreta il suo business in modo convenzionale. La visione di Starace è quella di un mondo in cui le energie rinnovabili stanno diventando una fonte sempre più importante, un mondo in cui le micro-reti possono distribuire energia e gas a popolazioni geograficamente distanti, che prima non avevano accesso ai servizi energetici. Come molte aziende del settore delle utilities, ENEL ha una forte capacità di ricerca e sviluppo interna, attività in cui investe miliardi di euro ogni anno. L’approccio manageriale di Starace implicherà un sempre più forte coinvolgimento di ENEL in collaborazioni con partner esterni, iniziando dagli attori che operano nella stessa catena di fornitura; insieme, questi investono in ricerca e sviluppo una somma dieci volte maggiore di quanto faccia ENEL stessa. Starace è molto aperto all’innovazione collaborativa ed allo sviluppo congiunto con altre aziende del settore delle utilities: egli vede la collaborazione nella ricerca e sviluppo tecnologica come uno dei passi fondamentali nel percorso verso un futuro dell’energia sempre più sostenibile.

ADM: Non è proprio il tema di questo articolo … ma ricordo che dieci anni fa mi hai detto: “le business school dovrebbero comportarsi come research hospitals”. Potresti spiegarmi ancora una volta cosa ti spinge a pensarla così? Quali sono le motivazioni? E cosa farebbe oggi Henry se fosse il Dean di una business school?

HC: A mio parere, l’organizzazione attuale delle business school causa ancora delle carenze nei meccanismi di feedback tra ricerca e pratica. Questo gap è una funzione della struttura delle business school, che oggi sono ancora in gran parte organizzate sul modello dei dipartimenti di fisica. Se guardi come assumono, come promuovono, cosa valutano, noterai che il loro focus è spesso unicamente rivolto all’ambito accademico.

Io direi che le business school dovrebbero essere gestite sempre più come le scuole di medicina. Perché le scuole di medicina? Perché queste mantengono una prospettiva doppia. Hanno ottimi team che svolgono attività di ricerca accademica di base, rigorosamente programmata. Nelle scuole di medicina si fa ad esempio ricerca medica a livello cellulare, molecolare e genetico.

Ma queste ospitano anche altri team, il cui lavoro è quello di trasformare i progressi della ricerca scientifica in terapie che possono essere concretamente di aiuto alla cura dei malati.

Questa è la ricerca clinica. Nel mondo accademico chi fa ricerca clinica utilizza gli stessi laboratori, legge le stesse riviste scientifiche e partecipa agli stessi meeting di chi fa ricerca di base o traslazionale. Le due figure collaborano e condividono informazioni quotidianamente. Ma la ricerca clinica si effettua nel mondo reale, dove i controlli disegnati dalla ricerca di base non esistono più. Chi fa ricerca clinica ha una profonda competenza nella progettazione di test e studi clinici nel mondo reale, e sa condurre questi studi in modo efficace e in condizioni di sicurezza.

Nelle business school noi non abbiamo questa tipologia di ricercatori; noi deleghiamo il lavoro traslazionale, il “lavoro clinico”, a consulenti esterni. E le società di consulenza non portano avanti progetti che presentano ambiguità, di cui prevedono risultati incerti, per non mettere in difficoltà i propri clienti e se’ stesse. Nelle business school ad oggi manca il meccanismo di feedback dal mondo della “clinica” a dirci quando la ricerca che stiamo conducendo non potrà essere tradotta in risultati efficaci. E forse, principalmente, in assenza di un buon circuito di feedback dal mondo della pratica al mondo dell’accademia, la ricerca che facciamo potrebbe orientarsi in direzioni sempre più distanti dai problemi reali.

ADM: leggendo l’introduzione alla special issue di California Management Review “Open the city as a Lab: Open Innovation meets the collaborative economy”, che hai curato con B. Cohen ed E. Almirall, mi sono subito pentito di non aver contribuito con un mio articolo, ma mi sono anche ritrovato a riflettere sul ruolo crescente che le città rivestono rispetto al paradigma dell’Open Innovation. Più precisamente, perché dici che le città possono trasformarsi da “barriere burocratiche” in “facilitatori” dell’Open Innovation?

HC: Le città possono e dovrebbero essere delle piattaforme digitali per la vita dei loro cittadini. In aree come quelle dei trasporti, parcheggi, eventi o altri servizi municipali, le città possono rendere disponibile l’infrastruttura per lo sviluppo di un ecosistema in cui cittadini e fornitori di servizi si connettono, collaborano e si avvicinano. Un buon punto di partenza sono i dati stessi. Le municipalità raccolgono moltissimi dati, ma tipicamente ne rendono difficile o impossibile l’accesso. Questa è una opportunità persa. Con gli open data, un mondo di soluzioni ai bisogni dei cittadini diventa possibile. Dunque, nel nostro articolo, diciamo che gli amministratori delle città possono diventare fornitori di “soluzioni” ai bisogni dei cittadini. Aprire l’accesso ai dati pubblici è un ottimo modo di cominciare.

ADM: cosa ne pensi degli Open Innovation manager che diventano decisori politici? In Italia abbiamo avuto il caso di Diego Piacentini, Senior Vice President International di Amazon e adesso Commissario Straordinario per il Digitale. Cosa può insegnare la pratica dell’Open Innovation alla politica?

HC: Personalmente sarei molto interessato alla risposta che Piacentini darebbe alla tua domanda! Come ho detto prima, i decisori politici possono organizzare e coordinare servizi che rappresentano “soluzioni” ai problemi dei cittadini senza necessariamente dover essere i fornitori diretti di queste “soluzioni”. Amazon stessa è una dimostrazione significativa di questo concetto. Originariamente i prodotti in vendita erano libri, forniti dall’azienda stessa. Oggi Amazon propone una varietà incredibile di offerte di prodotti in vendita tramite il suo sito web. E molti, se non la maggior parte dei codici di inventario di Amazon sono assegnati a prodotti di venditori esterni.

Nel mondo della politica, spesso noi confondiamo l’organizzazione e la gestione di un servizio con la fornitura diretta del servizio stesso. Amazon dimostra che è molto innovativo separare queste due funzioni nel nostro modo di pensare.

ADM: questo concetto di dinamismo è molto affascinante, ma mi chiedo come applicarlo alle piccole e medie imprese. Puoi darci un’idea del perché le piccole e medie imprese hanno una maggiore flessibilità rispetto alle grandi nel passare da strategie di innovazione “chiusa” a strategie di Open Innovation, a strategie “miste”?

HC: le piccole e medie imprese hanno -o dovrebbero avere- l’abilità di muoversi molto più rapidamente delle grandi imprese. E spesso queste sono partner ideali per le grandi imprese in progetti di Open Innovation perché non sono percepite come minacce competitive, come potrebbero essere altre grandi imprese, o come partner non affidabili, come ad esempio una piccola startup. Ma le piccole e medie imprese devono sapersi specializzare, è importante che esse si concentrino nello sviluppo del proprio business e che lo usino come un vantaggio competitivo nelle relazioni di Open Innovation.

ADM: Quali sono i tuoi auspici per la ricerca futura in tema di Open Innovation e com’è andata la World Open Innovation Conference 2017?

HC: La World Open Innovation Conference si è svolta in questi giorni per il quarto anno consecutivo. Il successo di questa iniziativa dimostra che esiste un’esigenza diffusa da parte di accademici, manager e decisori politici ad incontrarsi ed imparare l’uno dall’altro in una conferenza che li riunisce. All’incontro di quest’anno sono stati presentati 50 paper e 12 poster, insieme ad 8 challenge lanciate da esponenti dal mondo dell’industria. Abbiamo capito che c’è molto più da imparare dalle challenge piuttosto che da presentazioni tradizionalmente concentrate sulle risorse e le buone pratiche aziendali, ed abbiamo progettato la conferenza per incoraggiare un maggiore coinvolgimento ed interazione. Quest’anno abbiamo utilizzato una app, chiamata EventMobi che ha consentito ad ogni partecipante di organizzare meeting con altri. Abbiamo premiato gli accademici che si sono connessi ad esponenti del mondo dell’industria, ed allo stesso modo i manager che hanno incontrato accademici alla conferenza. Alla fine dei due giorni abbiamo designato vincitori coloro che hanno creato il maggior numero di connessioni. È  stato divertente, e spero abbia aiutato a raggiungere l’obiettivo di riunire questi due gruppi.

Di Alberto Di Minin e Cristina Marullo