Gianluca Dettori: è stato manager, imprenditore, investitore. Può vantare venti anni di esperienza professionale nell’ambito internet in Italia. Non è una cosa da tutti e Dettori ne ha viste proprio tante, da quando armeggiava con il doppino telefonico, dallo sviluppo dei social ad Internet of Things, le piattaforme che oggi caratterizzano le potenzialità della rete.
Caro Gianluca, tanto tempo è passato dalle tue prime infatuazioni in questo ambiente professionale. Cosa ricordi della tua prima esperienza in Olivetti?
“La prima volta che mi sono trovato pesantemente esposto a questo mondo è stato quando ho iniziato a lavorare in Italia OnLine (IOL). Avevo degli amici che sviluppavano giochi sull’Amiga, altri erano veri e propri hacker, Internet era ancora qualcosa che girava a caratteri testuali… Quando arrivai a IOL era il 1995: nasceva il web e ogni giorno veniva fuori una novità. Era una fase pionieristica e sembrava che chiunque, alzandosi dal letto al mattino, si dovesse inventare una nuova iniziativa di eCommerce, di search… Nascevano in continuazione community, i browser erano in bianco e nero e l’ambiente era totalmente diverso da oggi. Sui forum di discussione venivano trattate tematiche molto ampie e la cerchia di partecipanti era particolarmente ristretta, assolutamente internazionale, ma eravamo in pochi (c’erano ancora i cosiddetti newsgroup).”
Solo alcuni dei tanti progetti pensati venti anni fa si sono concretizzati. Abbiamo vissuto una veloce convergenza tra IT e TLC, è subentrato il mondo del mobile, sono comparse le community 2.0… Come è cambiato il modo di fare business con internet? Quali le sorprese di questo ventennio?
“La rete è diventata una roba di massa. È scomparsa, ad esempio, la cosiddetta Netiquette, il concetto di quegli anni che all’inizio era centrale oggi non esiste quasi più, se non in cerchie ristrette di hacker e nostalgici. La verità è che il più grande cambiamento della rete, dopo il web, è stato il 2.0, il social. Il grosso errore concettuale di quegli anni, in fondo, fu di pensare ad internet come ad una rete di computer. Oggi questo punto di vista è obsoleto, le cose non stanno più così. Internet è una rete umana, anche se poi ci sono di mezzo delle macchine. Quando abbiamo iniziato a mettere la nostra faccia su Facebook è cambiata l’idea di internet, è diventata qualcosa di assolutamente inatteso e totalmente contrario alle previsioni. È stato un cambio di paradigma che sicuramente era poco prevedibile nei primi anni di Internet. C’è stato uno sviluppo totalmente impensabile e, per capire il senso più profondo di internet, bisogna intenderlo proprio come rete di esseri umani, sempre più essenziale per tutto ciò che avviene a contorno. Al punto che alcune nazioni citano internet nelle loro carte costituzionali. Ricordo, per converso, il mondo offline di quegli anni, impermeabile e poco interessato a tutto quello che stava avvenendo. Era il 1997, i grandi gruppi editoriali, le grandi aziende con cui Olivetti lavorava, gli Amministratori Delegati dell’epoca erano assolutamente disinteressati. All’epoca Italia On Line era una start-up di alcuni giornalisti del Sole 24 Ore. L’idea era di lanciare in Italia qualche cosa tipo CompuServe (Ndr: il primo provider USA di servizi online), da sviluppare comunque in un ambiente chiuso. Poi mentre IOL diventava una realtà è arrivato il web, ed è cambiato tutto. Anche IOL ha compiuto una totale virata tecnologica: tutto il mondo online è stato assorbito dal web ed Internet è diventata quello che oggi possiamo vedere.”
Passano pochi anni e in California scoppia la bolla. L’entusiasmo che si era appena acceso in Europa si spegne, si sgonfiano tutte le attese di una nuova classe di imprenditori digitali in grado di rivitalizzare anche il vecchio continente e l’Italia. Rileggendo alcuni ritagli della stampa di inizio millennio sembra che la sensazione fosse quella del “siamo arrivati troppo tardi”.
“È stato drammatico, particolarmente in Italia. È impressionante ripensare che nel 1996 si quotava al Nasdaq Yahoo, una lista di link, una directory fatta da due ragazzi dell’università ed all’epoca mi sembrava stranissimo. Anche in Olivetti eravamo esposti a situazioni simili, i nostri colleghi lasciavano l’azienda per quotarsi in borsa con le loro start-up… Negli Stati Uniti in due anni nascevano aziende che venivano quotate e che ancora oggi si chiamano Yahoo e Amazon. Tempo che questa ondata è arrivata in Italia e ha cominciato a lasciare un impatto, dopo poco è scoppiata la bolla. Quella finestra per le startup, in Italia, si è aperta e chiusa nel giro di un anno; invece, negli Stati Uniti, il settore ha proseguito anche dopo lo scoppio della bolla tecnologia così come era andato avanti per anni. Quello che è indubbiamente avvenuto negli USA è stata una brusca frenata degli investimenti di Venture Capital (VC), ma nel biennio 2001-2002 la tecnologia ha continuato a progredire, le start-up a nascere. In Italia, invece, si è fermato tutto. L’IPO di Tiscali, l’evento che ha dato vita alla “nostra Silicon Valley”, risale all’ottobre 1999.. La nostra IPO di Vitaminic è stata l’ultima start-up tecnologica in Europa (Ottobre 2000). Quell’IPO ha di fatto chiuso la finestra in Italia (e in Europa). Se solo avessimo ritardato di un giorno l’uscita sul mercato, sarebbe saltato tutto ed era l’ottobre del 2000. (NdR: Vitaminic è l’azienda fondata da Gianluca Dettori, Franco Gonella e Adriano Marconetto: fu la risposta italiana allo sviluppo della vendita di musica online). Occorre anche ricordare che nel 1999 sono nati, da zero, quasi 20 fondi di VC in Italia e nel 2001 ne sono stati chiusi 18: solo 2 fondi sono rimasti in vita. C’è stato un buco nero, una valle della morte tra il 2001 e il 2004, ed era quasi proibito parlare di internet o VC. È impressionante quanti soldi sono stati bruciati da imprenditori italiani, ma è anche vero che sarebbe stato impensabile sviluppare in un anno le competenze necessarie. Competenze che negli USA esistevano già da 30 anni e, dopo la botta della bolla, gli investimenti sono ritornati. Per la Silicon Valley internet è stata una delle tante onde da cavalcare. Eclatante, ovviamente, la dimensione dell’onda, ma perché eclatante era quello che stava succedendo a seguito di questa rivoluzione tecnologica che stava investendo l’intero pianeta e le imprese di ogni dimensione.”
A caratterizzare le dinamiche di sviluppo californiane non sono stati esclusivamente players finanziari. Particolarmente importante è stato il ruolo giocato dal corporate venturing. Le grandi aziende americane in tutti questi anni hanno finanziato l’innovazione nel mondo digitale, scommettendo sullo sviluppo delle start-up, fornendo exit strategy tramite acquisizioni di soggetti sinergici per il loro business. Qui da noi non mi pare che il corporate venturing sia mai stata una prassi così diffusa…
“Il corporate venturing non è nella nostra cultura industriale, non lo è mai stato e continua a non esserlo. In alcuni casi si inizia ad intravedere un interesse, però sono casi lontani da quelli che hanno permesso la costituzione di grossi gruppi tecnologici, che si sono sviluppati proprio grazie a strategie di acquisizione di start-up, si pensi a Cisco.”
Parlami della tua esperienza in dPixel, di cui sei parter co-fondatore e Chairman. Qualche numero?
“Il fondo è nato 3 anni fa con 9 milioni di euro e si chiuderà nel 2017. Ad oggi registra 19 investimenti e 4 exit si sono già concluse. Abbiamo multipli buoni anche se non ancora ottimali. Abbiamo avuto 2 write-off. Per il momento non abbiamo grandi success stories, ma abbiamo investimenti che scalano bene. Ci vuole tempo: un fondo come il nostro dovrebbe riuscire a trovare 2 o 3 casi di successo.”
Come interpretate il vostro ruolo di Seed Capital VC Fund in Italia?
“Siamo presenti sul territorio. Investiamo in Italia, ma si tratta di una scelta con forti implicazioni, perché è particolare il contesto in cui operiamo. Il lato positivo è che il deal flow è ricco, profondo, diversificato e senza pressioni competitive. Spesso gli imprenditori che incontriamo sono alla loro prima esperienza. Se confronto quello che facciamo con quello che avviene in Silicon Valley, non ho dubbi: molto meglio il deal flow italiano! In California è un incubo, per seguirlo veramente hai bisogno di un grande giro di contatti e canali. Da noi è un lavoro completamente diverso, riusciamo a lavorare molto bene, ad interagire per mesi con i team coinvolti ed è uno degli aspetti più appaganti di questa professione. Il lato negativo dell’Italia sono le scarse competenze, sia tra gli operatori finanziari, sia per quanto riguarda il contesto manageriale e imprenditoriale. Il risultato è un failure rate più alto di quello che potrebbe essere. In Italia, invece, l’incubo è quello delle risorse. Non è facile trovarle e il risultato sono scelte di investimento molto filtrate. Una grandissima frustrazione di questi anni è non esser riusciti a fare tutto quel che avremmo voluto fare. Spesso ci siamo trovati in situazioni in cui era impossibile realizzare quello che volevamo qui da noi e se ci abbiamo provato abbiamo fallito in malo modo. Purtroppo alcune proposte che sono nate nell’ecosistema italiano non si sono sviluppate come avrebbero potuto se si fossero trovate in contesti diversi. Ma il salto di qualità avviene solamente se attorno a te hai il contesto giusto.”
Rimaniamo ancora un secondo sull’Italia. Nelle tue parole sulla rilevanza del contesto trovo conferma all’idea che le dinamiche dell’imprenditoria digitale sono caratterizzate da una veloce corsa a staffetta, con continui passaggi di testimone: dalla tecnologia, dall’idea fino al mercato. Fondamentale, dunque, è avere attorno a te dei colleghi, finanziari ed industriali, con cui si lavora e si lavora bene. Ripensando a questi anni in dPixel, mi puoi dire con chi hai collaborato meglio?
“In Italia siamo davanti ad una situazione in cui ormai c’è una generazione di start-up nate dal nulla, che si è sviluppata senza investitori, ma è andata avanti nel tempo in maniera molto organica. È un ecosistema da portare avanti. Da parte nostra, in questi anni abbiamo lavorato con quasi tutti nel mondo del VC. Dal mio punto di vista, credo che stia emergendo una nuova generazione di ventures e founders, gente molto esperta. Incontro anche una nuova classe di investitori, molto validi e smart, che aggiungono un valore di esperienza imprenditoriale al contributo finanziario. Questo è molto importante perché, se ovviamente la componente finanziaria del nostro lavoro è importante, il mestiere del VC necessita anche di una competenza industriale, specifica rispetto ai settori di riferimento. Fondamentale che dietro ad un progetto si crei una rete di investitori, di consigli e di esperienze. In Italia, ci sono sempre più persone così: penso ad Alessandro Sordi e Paolo Barberis, che con la loro esperienza stanno costruendo un tessuto molto valido.”
Mi sembri molto ottimista. Sono contento…
“Come ti dicevo, da diversi mesi la preoccupazione è il funding, perché c’è stato un gap temporale tra richiesta di risorse e risorse disponibili. Ora gli effetti negativi si stanno facendo sentire. Il Fondo Italiano di Investimento sta ripartendo ad investire, ma queste cose richiedono tempo”.
Cosa ne pensi dei fondi tematici e, più in generale, sarebbe secondo te auspicabile che le istituzioni italiane più liquide investissero di più nel venture capital?
“Sì, sarebbe decisamente auspicabile. Purtroppo in Italia è solo il FII che finanzia, mentre invece ci sono circa 800 investitori istituzionali che potrebbero investire in VC, ma non lo fanno per le ragioni più svariate. Alcuni non possono proprio per statuto, altri sono piccoli per cui è difficile investire in questa asset class. Insomma, le ragioni sono le più diverse ma il risultato è che di ‘capitali pazienti’ necessari per le startup e il venture capital sono molto limitati. L’orizzonte temporale da considerare in questo campo è molto lungo, al di là della portata di tanti investitori istituzionali. Il VC è un’industria anticiclica perché la tecnologia è anticiclica. Gli anni migliori in cui si investe sono quelli down: si devono anticipare le bolle perché nella bolla si investe e si perdono i soldi. Fondamentalmente, chi investe nel venture capital (e quindi nelle startup sottostanti) lo fa con un’ottica temporale di molti anni. Il principale investitore istituzionale degli USA nel campo del venture capital è Calpers, il fondo pensione dei dipendenti pubblici dello Stato della California, che da sempre investe nei migliori gestori di venture capital della Silicon Valley. Immagina se l’INPS, che ha un orizzonte temporale lunghissimo, potesse investire parte delle sue risorse così. Sono convinto che si potrebbero avere le condizioni per creare le aziende che fra trent’anni dovranno pagare le pensioni ai lavoratori di oggi e di domani.
Cosa ci siamo persi quest’estate? Cosa hai letto/visto/fatto e, soprattutto, appuntamenti per l’autunno e l’inverno che consiglieresti al mondo digitale italiano?
“Quest’estate ho fatto un buco nella sabbia e non ho letto-visto-ascoltato nulla, ma ci penserò per l’autunno. Consiglio vivamente tutta la Innovation Week di Roma e in particolare MakerFaire Europe. Sarà un appuntamento fondamentale, irrinunciabile.”
Gianluca, certo che 20 anni di esperienza in un settore industriale tutt’altro che maturo sono proprio tanti. Secondo me devi un po’ abituarti al ruolo di vecchio saggio della rete…
“Beh alla fine lavoro in questo campo da molto tempo, ho avuto buone occasioni, ma me le sono anche andate a prendere. Ho cercato ed incontrato le persone giuste anche se, alla fine, la persona giusta ero proprio io. Oggi lavoro nell’azienda in cui volevo stare sin dall’inizio della mia carriera e faccio quello che volevo fare… mi ritengo molto fortunato.”