Solo tre PMI italiane hanno ottenuto i finanziamenti nella Fase2 dell’SME Innovation Instrument. Perché? Troppo spesso non convince il disegno imprenditoriale. Oggi Nòva ha dedicato due pagine per raccontare come le nostre aziende si stanno confrontando con Horizon 2020 e spiegare quali sono le opportunità.
La partecipazione delle aziende italiane ad Horizon 2020 è stata fino ad ora caratterizzata da luci ed ombre. Gli aspetti positivi sono l’ampia progettualità, la capacità di inviare alla valutazione di Bruxelles tante proposte, sia in partenariato , sia in solitario. Tre sono state le finestre trimestrali dell’SME Innovation Instrument che si sono aperte da giugno a dicembre 2014, e più di 1200 sono state le proposte italiane.
Altra notizia positiva è che le PMI italiane si sono sapute distinguere nelle graduatorie della Fase 1 dello strumento, che assegna 50mila euro a fondo perduto. Fino ad ora sono 58 le aziende che stanno ricevendo (con puntualità nei pagamenti) questi contributi, per un totale di circa 3 milioni. Con un po’ di ambizione, possiamo auspicarci di avere fino a 200 vincitori italiani ogni anno, per un ammontare complessivo di 10 milioni da spendere in studi di fattibilità e per il perfezionamento di un business plan. Cifre che possono sembrare marginali, ma si tratta anche del biglietto di acceso a quello che la Commissione considera la Champions League dell’innovazione in Europa. Bruxelles vuole selezionare ogni anno un migliaio circa di imprese in tutta Europa: business proposition aggressive, innovative e scalabili, proiettate ad una leadership globale nelle rispettive nicchie di mercato. Tutto ciò, nel disegno della Commissione, avverrà continuando ad accompagnare le aziende, tramite una Fase 2 dello strumento (che assegna fino a 2,5 milioni) ed una Fase 3 che faciliterà sinergie con altri programmi comunitari. Inoltre, altri finanziatori e partner industriali potrebbero considerare il valore del bollino di qualità assegnato dalla Commissione ai progetti che superano la selezione. Fenomeno che si sta già concretizzando in Italia, come mi hanno confermato alcuni vincitori del Fase 1.
Nel percorso di selezione, iniziamo però a registrare anche le ombre della partecipazione italiana. È molto basso il tasso di successo delle nostre PMI. In Fase 1 si aggira intorno al 4.5%, mentre la media europea è pari a 6%, sfiora o supera il 10% in paesi come Spagna, Irlanda, Israele e Regno Unito.
Inoltre, è la capacità di conquistare i finanziamenti in Fase2 che genera più preoccupazione. Tre aziende italiane vincitrici su 70 che hanno presentato domanda sono veramente poche.
Sul tavolo degli imputati c’è anche il funzionamento dello strumento PMI: ne sono consapevole. Non voglio però in questa sede prendermela con l’arbitro. Tematiche troppo stringenti, rapporti di valutazione troppo scarni, sistema di interazione con gli esperti da rivedere, sono questioni europee e non solamente italiane. Insieme agli altri Delegati nazionali stiamo invitando Commissione ed EASME ad essere più coraggiose e tentare strade nuove.
Da Bruxelles sottolineano come i Paesi che meglio si sono preparati allo strumento, hanno anche raccolto di più in questi primi mesi. L’SME Innovation Instrument è stato un programma ampiamente annunciato dalla precedente Commissione: diversi paesi avevano da tempo impostato un percorso di pre-selezione e assistenza mirata alle aziende che si preparavano a fare domanda. Programmi finanziati da governi e amministrazioni locali (attingendo anche a risorse comunitarie assegnate su base regionale e nazionale) pensati appunto per creare palestre, con un ottimo ritorno sugli investimenti, se si considerano ad esempio i 17 milioni assegnati in questi mesi al Regno Unito, i 15 milioni alla Francia, i 14 ad Olanda e Spagna.
Siamo dunque partiti in ritardo: non è una novità, ma l’auspicio è che con il tempo si concretizzeranno i piani di sviluppo finanziati in Fase1 e arriveranno dunque anche in Italia le risorse di Fase2. Attenzione, perché non è previsto nessun automatismo e dunque anche questo tasso di conversione va monitorato.
Stando però ad alcune autorevoli opinioni che ho raccolto a Bruxelles, c’è dell’altro su cui riflettere. Quello che è mancato alle proposte italiane, è stata una convincente dimostrazione del quid imprenditoriale da parte dell’azienda. In altri termini, i progetti pervenuti sono apparsi in molti casi come confezionati ad-hoc per la caccia al finanziamento europeo. Non è questo l’approccio giusto, ha sottolineato più volte la Commissione. Fondamentale nella valutazione di Bruxelles è la credibilità del disegno imprenditoriale messo in campo. Il contributo europeo arriva perché il progetto presentato è considerato ad altissimo potenziale, ma il punto di partenza irrinunciabile è il rischio di impresa che l’SME Innovation Instrument va ad affiancare e non certo a sostituire. I primi tre vincitori italiani hanno dimostrato la loro volontà di mettersi in gioco e commercializzare le loro idee: il track-record di Coelux e Stamtech nel 7° programma quadro e le partnership industriali di Lualdi hanno giocato un ruolo molto importante nel garantire questa credibilità.
Presentare domanda per un SME Innovation Instrument non è come comprare un biglietto della lotteria. Questo il messaggio che dobbiamo portare nel rapporto con imprenditori, consulenti, centri di ricerca, oltre che nelle strategie di affiancamento. “Impatto” è la parola chiave di Horizon 2020: scienziati, ricercatori e imprese debbono essere credibili nella loro ambizione a contribuire alle grandi sfide della società. Poiché questo non è un risultato scontato, poiché in ogni progetto scientifico e in ogni idea aziendale c’è una componente di rischio, solamente dimostrando di ragionare in maniera imprenditoriale possiamo convincere l’Europa ad investire sui nostri progetti.
Articolo pubblicato su Nòva il 25 gennaio 2015
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