Ci sono tanti tipi di innovazione. L’innovazione è il risultato di un cambiamento e le fonti del cambiamento sono parecchie. Il progresso scientifico e tecnologico è una delle principali leve dell’innovazione. Quella che mi appassiona di più. Lo sanno bene gli studenti del Master in Management dell’Innovazione che inaugurerà domani, mercoledì 13 gennaio, la sua 25ma edizione presso la Scuola Superiore Sant’Anna, con la partecipazione del Ministro Stefania Giannini e di tanti ospiti nazionali e stranieri.
“Spiegami la relazione tra spesa in R&S e innovazione” è proprio una di quelle domande che all’esame (mi auguro) i ragazzi si aspettino. Risposta? Come è vero che l’innovazione non è necessariamente conseguenza di un investimento in ricerca, così un consistente investimento in R&S a livello di paese o di azienda non è detto si traduca per forza in innovazione. La storia dell’innovazione è una storia di #Fuoriclasse (appunto…).
Pochi paesi al mondo possono dire di aver saputo rinnovare nel tempo il loro vantaggio competitivo (e il loro benessere) grazie alla sistematica applicazione di scienza e tecnologia alle grandi sfide economiche, politiche e sociali. Gli Stati Uniti sono senza dubbio maestri in questo ambito.
La questione è nota a Roma quanto a Bruxelles, se già nel 1995 la Commissione Europea in un Green Paper on Innovation lamentava l’esistenza di un European Paradox. Il paradosso recitava più o meno così: l’eccellenza del sistema scientifico e tecnologico europeo non si traduce in capacità di favorire lo sviluppo di industrie high-tech. Un déjà-vu lungo vent’anni che trova suo più recente atto nel paper pubblicato ad aprile da Ari Kokko, della Copenhagen Business School e colleghi. La spesa europea in R&S non si traduce in innovazione tanto quanto quella americana anche per la scarsa capacità di trasferire sul mercato l’innovazione prodotta dai laboratori di ricerca del vecchio continente, stando alla lettura dei dati offerta da questi economisti.
Ecco perché guardo con particolare attenzione all’Open Forum “From Basic Science to Commercialization: How Research Drives Innovation“, organizzato dall’Ambasciata Americana e dal Ministero degli Esteri a Roma giovedì 14 gennaio, alla presenza dell’Ambasciatore John Phillips, che farà gli onori di casa, e nuovamente del Ministro Stefania Giannini.
Gli USA sono sempre stati molto aperti con i loro partner internazionali nel condividere modelli e idee su innovazione e trasferimento tecnologico. Ho avuto modo di apprezzarlo in prima persona anche recentemente, quando sono stato invitato dall’Ambasciata Americana a far parte della Fellowship del Meridian International Center, che mi sta dando la possibilità di studiare e mettere a confronto diversi modelli di ricerca e innovazione in Europa e Stati Uniti.
In questi anni, la Missione Diplomatica a Roma ha sottolineato con tre diversi Ambasciatori la rilevanza di questa relazione tra scienza e mercato. Ronald Spogli ha lanciato negli anni più bui della crisi il programma “Partnership for Growth”, spiegandoci la necessità di celebrare i nostri high tech entrepreneurs. David Thorne ha gestito in prima persona l’organizzazione del Digital Economy Forum, che per tre anni ha raccontato lo sviluppo dell’imprenditoria ICT. Da ultimo John Philips ha accelerato lo sviluppo del programma Fulbright BEST, (prossimo bando in scadenza il 31 marzo) e sta sottolineando l’attenzione dell’Amministrazione Obama verso l’Open Science (cfr. l’intervista con Thomas Kalil, Advisor della Casa Bianca).
Il convegno presso l’Ambasciata è organizzato a corredo della firma della Joint Declaration della Commissione governativa italo-americana sulla cooperazione su scienza e tecnologia. Istituita a Roma nel 1988 e rinnovata a cadenza regolare, questa Commissione ha avuto il compito di evidenziare gli ambiti in cui i due Paesi si impegnano a favorire lo sviluppo congiunto di scienza e tecnologia. Un accordo grazie al quale nel corso degli anni sono stati finanziati decine di progetti congiunti, in molti ambiti di lavoro.
Le diplomazie sono in queste ore al lavoro per ultimare il documento che verrà presentato giovedì a Roma. Troveremo identificati gli ambiti scientifici di interesse comune a Italia e Stati Uniti per il prossimo triennio. Tre riflessioni al riguardo.
1. È necessario che i due Paesi impegnino risorse sufficienti per finanziare il lancio di nuovi progetti nelle aree considerate di comune interesse. Bisogna tenere ben presente che far partire collaborazioni scientifiche a livello internazionale non è semplice, i risultati sono spesso aleatori e soprattutto c’è un forte costo opportunità per il personale coinvolto. Le occasioni sono tante, spesso ci si perde tra le diverse opportunità e iniziative. Allocare con chiarezza fondi a supporto di questo dialogo permette anche di allineare con maggiore chiarezza gli obiettivi da raggiungere.
2. I tempi sono maturi per riconoscere formalmente che la valorizzazione dei risultati scientifici, l’identificazione di nuovi modelli di business e il trasferimento tecnologico sono ambiti in cui i due Paesi possono collaborare e su cui confrontarsi. Particolarmente attiva, in questi anni è stata in tal senso la nostra Rappresentanza diplomatica a Washington che ha sottolineato in più occasioni la necessità di stimolare il dialogo tra Italia e Stati Uniti nell’ambito delle politiche sull’innovazione ed in particolare sul sostegno pubblico – privato alle PMI innovative. Il programma Start-Up VISA del MISE potrebbe essere un altro canale da allineare con lo sviluppo della collaborazione Italia-USA. Noi italiani potremo imparare tanto sul come scienza e tecnologia siano diventate così centrali nelle strategie americane di crescita, ma anche gli Stati Uniti potranno trovare ispirazione nell’analisi delle nostre dinamiche industriali; come già è accaduto negli anni ‘80 a Michael Piore e Charles Sabel nello studio dei nostri distretti.
3. la partecipazione all’incontro di Sandro De Poli, CEO di General Electric in Italia mi porta a sottolineare il ruolo che gli investimenti della grande industria possono giocare in questo dialogo. GE è presente in Italia con 25 sedi, un volume di affari di 6 miliardi di euro e ha investito nel nostro paese nel 2014 400 milioni di euro in ricerca e sviluppo. Nel 1994, GE acquisì Nuovo Pignone, e da quell’investimento si sviluppò quella che oggi è GE Oil & Gas. In quella situazione gli investimenti di GE hanno permesso la valorizzazione di una competenza molto profonda e saldamente radicata negli stabilimenti fiorentini. Venne data nuova vita ad un know how ingegneristico su turbine e compressori che mai avrebbe potuto essere sfruttato appieno e su scala globale nell’ambito della vecchia azienda di stato. Ci sono voluti tanti soldi, ma anche l’umiltà da una parte e dall’altra di riuscire ad intavolare un dialogo rispettoso.
Di questa spinta propulsiva, della stessa umiltà e consapevolezza ha bisogno buona parte del nostro sistema ricerca/innovazione. Una più profonda collaborazione con gli Stati Uniti può essere particolarmente utile allo scopo.