La prima ebbe come epicentro l’Inghilterra verso la fine Settecento e fu dominata dalla diffusione della macchina a vapore. La seconda, da metà diciannovesimo secolo, fu accompagnata dal crescente protagonismo delle macchine elettriche e si spinse ben al di fuori dei confini inglesi. Mentre la terza (le ha dedicato un libro l’economista statunitense Jeremy Rifkin), accompagnata dalla nascita del computer, viene solitamente collocata nella seconda metà del Novecento.
La definizione di “rivoluzione industriale”, coniata a fine Ottocento dallo storico inglese Arnold Toynbee, continua ad avere successo. Tanto che al giorno d’oggi, non a caso, si parla ormai sempre più frequentemente di “quarta” rivoluzione industriale. Una rivoluzione che, a differenza di tutte le precedenti, è accompagnata anche da una profonda trasformazione digitale.
“La quarta rivoluzione industriale – spiega Maria Chiara Carrozza, ospite delle Innovation Restart Chats parte del nuovo Master MIND della Scuola Sant’Anna di Pisa – è rilevante perché sta cambiando la società, non solo il processo di produzione e il modo in cui forniamo servizi e prodotti. Ha un impatto sui giovani e sugli adulti, sull’istruzione e la formazione. Sta rivoluzionando la nostra vita”.
Laureata in fisica all’università di Pisa nel 1990, nel 1994 Carrozza ha ottenuto un dottorato di ricerca in ingegneria alla Scuola Superiore Sant’Anna di cui nel 2007 è diventata Rettore. Nel 2013 (dopo essere anche stata eletta Deputato) è divenuta ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca nel governo Letta. Oggi è Direttore Scientifico dell’IRCCS Fondazione Don Gnocchi e opera nel laboratorio congiunto Sant’Anna – Don Gnocchi MARELab, insegna nell’ambito dei corsi di Ingegneria Biomedica, ed è responsabile dell’area Neuro-robotica dell’Istituto di Biorobotica della Scuola Superiore Sant’Anna.
“Per capire cosa sia la quarta rivoluzione industriale – spiega l’ex ministro – dobbiamo capire cosa significhi tradurre la scienza in tecnologia. Il management e l’innovazione hanno un ruolo importante per gestire il cambiamento nella società e questa traduzione dalla scienza e dalla conoscenza al business e al successo, in risposta alle domande della società. I manager dell’innovazione sono dunque persone chiave in questo processo di traduzione”.
Fenomeno parallelo alla cosiddetta quarta rivoluzione industriale è, dunque, la trasformazione digitale che, però, va intesa come un processo molto più ampio che riguarda l’intera società. Ne discendono numerose questioni: dalla salute 4.0 alla socializzazione della robotica, fino al delicato tema dell’integrazione uomo-robot.
“Ora stiamo vivendo ad esempio la trasformazione digitale nel campo della medicina. È fondamentale per i principali attori e le parti interessate capire questa trasformazione e anticipare quale sarà la medicina del futuro. In ogni caso la trasformazione digitale è molto costosa: può richiedere di cambiare l’organizzazione ed adeguare il management, ma soprattutto rende necessario rivoluzionare l’assetto introducendo la digitalizzazione in tutta la vita dell’azienda. La principale differenza rispetto al passato è che non è più sufficiente avere un reparto per la tecnologia e l’informatica: è necessario trasformare tutto in un reparto che ripensa le attività sulla base del data management e della tecnologia. Non basta assumere analisti. Deve cambiare il modo di operare e organizzare il business ed i processi. È molto costoso in termini di denaro, tempo, istruzione, strumenti, formazione, infrastrutture, ma si tratta di un investimento necessario di change management”.
In un contesto altamente digitalizzato recitano un ruolo sempre più centrale le piattaforme.
“Nell’ultimo decennio, in tutto il mondo è emersa una pletora di piattaforme digitali che utilizzano modelli di business basati sui dati, rivoluzionando le industrie esistenti. La potenza delle piattaforme si riflette sul fatto che sette delle prime otto aziende al mondo per capitalizzazione di mercato utilizzano modelli di business basati su piattaforma. Come funzionano? Offrono servizi e soprattutto fiducia e semplicità: le persone utilizzano Amazon invece di altri servizi perché si fidano e trovano quello che cercano. L’economia digitale ha un aspetto importante che è legato proprio alla fiducia. Ciò che temo di più è che alcune di queste piattaforme diventino veri e propri monopolisti. E non è un bene per il nostro sistema, che si basa sulla concorrenza. La concorrenza è il cardine di una democrazia liberale”.
L’emergenza Coronavirus ha accelerato questa migrazione verso i mezzi digitali?
“Penso che assisteremo ad una forte migrazione verso i mezzi digitali, con buoni risultati per ciò che riguarda l’apprendimento e l’insegnamento che, tuttavia, resta uno dei processi in cui l’incontro è fondamentale. Un settore in cui, invece, credo non ritorneremo indietro è quello dei meeting di lavoro, dei consigli di amministrazione, delle riunioni accademiche o tra dirigenti. In questo modo, anche le persone che non sono in grado di intervenire fisicamente alla riunione possono comunque partecipare al processo democratico. Quindi una parte del processo democratico sarà digitalizzata e più aperta e questa è una buona cosa, purchè ci sia apertura e concorrenza sulle piattaforme”.
In un contesto altamente digitalizzato quale sarà il ruolo delle startup?
“Fondamentalmente l’attività di una startup è quella di trasformare un risultato scientifico o creativo in tecnologia, in nuova tecnologia, in nuove idee, per forzare il processo di innovazione che nelle grandi imprese non sempre è favorito. Startup è un acceleratore di innovazione, ma ad oggi non un buon modo per andare direttamente sul mercato dove le barriere di ingresso sono enormi. In molti casi, soprattutto in Italia, le aziende spin-off dell’accademia o della ricerca rischiano di fallire presto perché non vogliono o non cercano un’azienda più strtutturata e affermata con cui interagire e pensano di poter sviluppare il business da soli e il risultato è che non crescono. Uno dei compiti più difficili è quello di dare la giusta valutazione a un’azienda, realmente basata sulla tecnologia. Infine, è molto difficile trovare buoni manager per quelle startup, perché molte volte ottimi ricercatori non sono altrettanto bravi a reinventarsi manager specialmente quando hanno paura di perdere il controllo”.
E cosa cambierà nel modo di fare innovazione? Diverrà un processo più veloce?
“Puoi investire tutto il denaro che vuoi, ma in molti casi non è possibile comprimere i tempi dell’innovazione. Hai bisogno di tempo per vedere se un’innovazione sta funzionando o sta producendo effetti collaterali. La metodologia per la sperimentazione è fondamentale. Questo non è facile da far capire agli investitori, soprattutto nel settore dei dispositivi medici. Perché se devi tradurre dalla scienza alla tecnologia devi seguire un processo specifico che richiede un sacco di tentativi ed errori. C’è questa illusione che il tempo di sviluppo possa essere compresso con denaro. Invece non è così”.
Di Alberto Di Minin e Nicola Pasuch