In un contesto in cui istituzioni europee e singoli stati membri pongono al centro delle loro politiche industriali per la ripartenza, l’innovazione e le start-up, arriva con perfetto tempismo lo studio del Professor David Audretsch pubblicato dalla importante rivista scientifica Research Policy. Assieme a Tommaso Minola, Einar Rasmussen, Alessandra Colombelli e Luca Grilli, a corredo di uno special issue di Research Policy, il noto economista statunitense ha analizzato le politiche per startup e PMI innovative di ben trentanove paesi, valutando approcci e risultati differenti, fornendo così un puntualissimo assist ai policy-makers europei alle prese con i piani per la ripresa post-pandemia.
Audretsch e Minola sono stati ospiti delle Innovation Restart Chat, organizzate dalla MIND Community della Scuola Superiore Sant’Anna. “Nessun singolo strumento di policy per innovazione e PMI è in grado di apportare cambiamenti da solo: è l’insieme delle politiche, armonizzate secondo una visione ampia, che genera risultati”: così Tommaso Minola, professore di management all’Università di Bergamo, descrive la necessità di elaborare strategie di ampio respiro, definendo con chiarezza parametri di valutazione e obiettivi da raggiungere.
David Audretsch è stato per anni un punto di riferimento nel dibattito internazionale sulle politiche per l’innovazione. Distinguished Professor presso la Indiana University dove detiene la cattedra di Sviluppo Economico, Audretsch ha collaborato con Commissione Europea, OCSE, World Bank, vari dicasteri dei governi del G20. La sua formazione americana, e la sua grande esperienza e passione per le dinamiche del vecchio continente (in particolare Germania e Regno Unito) lo rendono un osservatore unico nel suo genere.
Innovazione, startup e PMI sono da sempre al centro dei suoi studi: in tempi non sospetti – quando si iniziava solamente ad intuire la ricchezza e lo sviluppo che l’high tech avrebbe generato – Audretsch rimarca il ruolo delle piccole imprese e delle start-up nel generare innovazione. A cavallo tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta “pochi parlavano di innovazione”, ci racconta. “Le grandi imprese di successo, dall’industria automobilistica al manufatturiero, avevano dalla loro i due principali ingredienti per il successo: size and scale”, cioè grandi dimensioni e un’economia di scala. Con il sopraggiungere della crisi di fine anni ’70, il modello fordista, ancora dominante nonostante anni di turbolenze, inizia davvero a vacillare. La terza rivoluzione industriale raggiunge il suo massimo vigore con l’esplosione della globalizzazione economica, che miete non poche vittime tra i colossi industriali del tempo. Inizia un lento declino per intere regioni e città che avevano costruito la propria ricchezza sulla grande industria, come Detroit o Pittsburgh. “Gli studiosi allora iniziarono a capire che la chiave per la sopravvivenza era una sola: innovare! Chi non avrebbe innovato sarebbe scomparso dalla scena”.
Audretsch condivide con noi un particolare evento che ha ispirato la sua carriera. Siamo agli inizia degli anni 80. Lui è ancora un dottorando presso l’Università del Wisconsin, e si reca a Palo Alto, nel cuore di una Silicon Valley ancora da scoprire, a trovare la sorella. “Credevo fosse disoccupata, e che per passare il tempo scrivesse manuali per startup e giovani imprenditori”, racconta oggi Audretsch “invece era anche lei al centro di un fenomeno di sviluppo inimmaginabile” . Da quel viaggio il giovane Audretsch si porta a casa due intuizioni che segneranno i suoi studi più importanti. La prima è la la presa di coscienza che le piccole imprese, soprattutto in alcuni settori ad alta intensità tecnologica, possano davvero rappresentare i driver di sviluppo dell’innovazione. La seconda è il rendersi conto di che differenza possa fare la vicinanza geografica tra startup, PMI e grandi centri di produzione della conoscenza, come università, grandi lavoratori pubblici, o reparti R&D di grandi aziende.
In seguito, assieme al collega Zoltan Acs, Audretsch inizia a studiare i processi di innovazione nelle piccole imprese e, nel 1990, pubblica il libro Innovation and Small Firms. Lo studio offre una dettagliata analisi empirica di come piccole e grandi aziende contribuiscano, insieme, all’avanzamento della tecnologia e dell’innovazione. Perché, sottolinea Audretsch, “non si tratta mai di uno scontro tra Davide e Golia, ma di interazioni virtuose tra organizzazioni con risorse ed obiettivi di diversa portata”.
Uno studio pionieristico, che utilizza dati fino ad allora mai impiegati e che aprirà le porte a filoni di ricerca oggi centrali per tanti economisti. Ma non ancora sufficiente a rispondere a una domanda ricorrente tra gli addetti ai lavori e non solo: come fanno realtà con scarsissime risorse a generare risultati più innovativi di grandi imprese che cadono vittime di ondate tecnologiche non adeguatamente sfruttate?
Come già descritto dall’economista di Harvard Zvi Grilliches, i due ingredienti principali dell’innovazione sono buone idee e persone in grado di tradurle in pratica. Il capitale umano di qualità va però trovato, e mirati investimenti in ricerca e sviluppo non sono semplici da realizzare ovunque nel mondo. Da qui la seconda intuizione di Audretsch: l’importanza del ‘dove’, di quello che comunemente chiamiamo Innovation Ecosystem. “La conoscenza, per natura, non è statica. Essa tende piuttosto a fuoriuscire, a traboccare dalla propria sorgente, che può essere un’università, o il reparto R&D di una multinazionale”, spiega Audretsch. Per questo la vicinanza con queste ‘sorgenti’ risulta fondamentale.
È dunque sufficiente incentivare la nascita di nuove imprese nelle aree più avanzate tecnologicamente? “Attenzione, – aggiunge l’economista – la conoscenza non piove dall’alto. La vicinanza geografica da sola non basta: è necessario che qualcuno ‘trasporti’ nuove scoperte, promettenti invenzioni o semplici idee da un luogo all’altro in modo attivo, con l’intento di capitalizzare queste risorse apparentemente gratuite.” Accanto alle fonti di conoscenza, servono dunque degli imprenditori capaci. È questa, in soldoni, la Knowledge spillover theory of entrepreneurship, tra i più importanti contributi di David Audretsch agli studi su imprenditoria e innovazione, sviluppata negli anni ’90 insieme alla Professoressa Maryann Feldman. Quale l’esempio forse più eclatante di knowledge spill-over? “Steve Jobs – racconta Audretsch – riuscì ad accedere ai laboratori dello Xerox PARC, il centro di ricerca della multinazionale Xerox a Palo Alto, imbattendosi nel progetto di interfaccia grafica che sarebbe stato all’origine di tutti i moderni sistemi operativi e delle conseguenti fortune della Apple. Si trattava di un progetto scartato dalla Xerox, di cui Jobs, con perspicacia e intuito, colse il potenziale”.
Lato politica industriale, non bisogna però, come già avvenuto in passato, credere che la chiave per lo sviluppo sia cercare di mettere in piedi facsimili della Silicon Valley in altre regioni del mondo. Ciascun territorio è caratterizzato da proprie peculiarità, punti di forza e debolezze: è fondamentale partire da queste tradizioni per impostare una traiettoria di sviluppo regionale. Al contempo, come sottolinea Minola, che oggi dirige il Center for Young and Family Enterprise dell’Università di Bergamo, non bisogna neppure confondere le politiche per l’innovazione con politiche per il lavoro: “alla luce della nostra ricerca, è emerso che molte delle ‘politiche per l’innovazione’ esaminate, sono in realtà politiche per il lavoro. È importante considerare la dicotomia tra politiche per lo sviluppo, dunque volte alla creazione di posti di lavoro, e politiche per imprenditoria e innovazione tecnologica. Non sempre le prime sono utili a liberare energie innovative, anzi, potrebbero rivelarsi addirittura controproducenti”.
Quali allora i futuri orizzonti da scrutare per intercettare trend di sviluppo industriale? Il Professor Audretsch ci sconsiglia di rimanere ancorati ad una visione “transatlantica”. I grandi cambiamenti che arrivano dalla Cina e dall’Asia tutta (…senza perdere di vista le opportunità e le evoluzioni delle regioni in via di sviluppo, dall’Africa al Sudamerica) guideranno il prossimo futuro… e saranno fonte di ispirazione per gli economisti industriali di oggi e di domani.
Rimandiamo i lettori alla consultazione dell’intero fascicolo di Research Policy, ricco di interessanti approfondimenti.
Di Alberto Di Minin e Luigi Gioja