Antonio Frisoli insegna robotica presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, dove dirige l’area di Interazione Uomo-Robot del laboratorio PERCRO dell’Istituto di Intelligenza Meccanica (IIM).
Insieme a lui abbiamo cercato di capire in che modo i robot possano essere empatici: un concetto che di primo acchito può suonare ossimorico – o evocare le immagini di capolavori di fantascienza cinematografica – ed è invece un attuale tema di ricerca, tutt’altro che lontano dal trovare una realizzazione pratica.
Come si è evoluta la tua passione e ricerca sui robot?
Ho una formazione di base in ingegneria meccanica, che ho successivamente integrato con un dottorato in robotica, focalizzandomi nella mia ricerca sull’interazione avanzata uomo-robot. In particolare, mi occupo di analizzare gli scambi tra uomo e robot in modo multisensoriale, attraverso il tatto, la visione, l’audio, al fine di sviluppare un’interazione più naturale. Questo filone di ricerca ha assunto negli anni un’importanza sempre maggiore grazie allo sviluppo della robotica collaborativa. La mia ricerca si è traslata nel tempo su sistemi robotici che interagiscono con l’uomo, sia a livello sociale e riabilitativo, ma anche per altre finalità, sia di servizio che a livello industriale.
Qual è la tua esperienza in Sant’Anna e il suo ruolo presso l’IIM?
Negli anni ho assunto diversi incarichi e ricoperto vari ruoli in Sant’Anna, ottenendo grandi soddisfazioni personali e professionali. Per quanto riguarda la ricerca istituzionale, attualmente dirigo l’area di ricerca chiamata “Human Robot Interaction”. Con il mio team cerchiamo di promuovere sistemi robotici avanzati, alla cui base è presente un’interazione avanzata e fisica con l’uomo. Da maggio 2021 è stato istituito presso la Scuola il nuovo Istituto di Intelligenza Meccanica che si occupa in modo interdisciplinare di ideazione, progettazione e realizzazione delle componenti hardware e software dei sistemi artificiali e dello studio della loro interazione con l’uomo.
Per quanto riguarda la didattica invece, cerco di condividere i risultati delle mie ricerche a livello di formazione undergraduate e postgraduate, realizzando un trasferimento di conoscenza ed esperienza ai miei studenti, con una forte componente di laboratorio. A livello di progetti, sono felice di lavorare alla creazione in Sant’Anna di una “Seasonal School in Artificial Intelligence and Robotics in Extended Reality (AIRONE)” incentrata sul tema degli ambienti misti, cioè virtuali, di realtà aumentata e di interazione con i robot.
Infine, ricopro un ruolo anche all’interno di Artes 4.0, Centro di Competenza finanziato dal Mise sulla robotica collaborativa e le tecnologie abilitanti. Il nostro obiettivo è promuovere con le aziende l’utilizzo e la diffusione delle tecnologie di robotica collaborativa.
Veniamo al tema centrale della nostra chiacchierata. Nella tua recente intervista per “Società e Rischio” parli di “empatia” dei robot. Che cosa intendi con questo termine e qual è il legame con i robot (per quello che ne sappiamo, gli esseri meno empatici possibili)?
Nel mondo della robotica la possibilità di creare un elemento di interazione che non sia freddo, artificiale, da “macchina”, può fare la differenza. Oggi, grazie allo sviluppo costante delle tecnologie di intelligenza artificiale, siamo consapevoli dei grandi progressi realizzati: è possibile ottenere un livello di interazione tale tra persone e robot – con ogni sembianza, non necessariamente umanoidi – in grado di abbattere quell’idea di relazione fredda, complessa e non naturale che siamo soliti immaginare.
Ci sono due ambiti principali di impiego. Il primo è quello medico-sanitario. Questo periodo di pandemia in particolare, ha mostrato quanto sia necessario avere robot che realizzino operazioni elementari per la cura e la riabilitazione dei pazienti.
La seconda declinazione è invece quella della robotica di servizio. I robot industriali tradizionali sono chiusi in una gabbia, la cosiddetta “cella di lavoro”, dove compiono operazioni spesso pericolose per l’uomo; quando l’uomo apre la porta di questa gabbia il robot si interrompe, e non può quindi esserci convivenza e interazione. I robot di oggi, invece, possono “uscire dalla gabbia”, e condividere lo spazio con l’uomo, andando a realizzare diverse forme di empatia. Per esempio, una forma di empatia primitiva è la capacità di prevedere quello che la persona che hai davanti sta per fare e agire di conseguenza. Un robot che precede il mio movimento, si adatta e mi fa capire che si accorge della mia presenza, è in grado di creare uno spazio di convivenza possibile e anche naturale. Si parla infatti di forme di “navigazione naturale”, intendendo la semplicità di interazione e la sempre minore distanza tra uomo e robot: le barriere all’interazione si riducono sempre di più, andando ad aumentare gradualmente un senso di empatia.
Puoi descriverci alcuni nuovi trend di ricerca nell’ambito dell’empatia dei robot?
Le nuove ricerche sono prevalentemente pubblicate in articoli scientifici e poi riprese da riviste internazionali. In particolare, nuove pubblicazioni danno l’idea di come alcune tecnologie dell’intelligenza artificiale possano essere applicate a questo campo. Ho letto di recente di esperimenti molto interessanti realizzati nell’ambito dei videogiochi, perché l’interazione si realizza anche nel mondo virtuale con agenti virtuali.
Un altro ambito importante di ricerca riguarda l’interazione nel mondo digitale. In questo caso si valuta come l’empatia sia collegata all’espressività dell’agente virtuale e la sua rappresentazione più o meno artificiale.
Nel tuo percorso professionale avrai incontrato moltissimi maestri e professionisti che ti hanno mostrato la via e indirizzato verso nuovi traguardi. Chi ti senti di ringraziare e chi sono i tuoi punti di riferimento in Sant’Anna?
All’interno della Scuola Sant’Anna possiamo contare su alcune figure di spicco, talento e lungimiranza, che hanno avuto un ruolo centrale per la robotica italiana. In primis Massimo Bergamasco, che ha portato per primo il tema della telerobotica e della telepresenza nel nostro paese, fondando il laboratorio di robotica percettiva. Se vent’anni fa si trattava di tecnologie “spaziali”, in tutti i sensi, oggi grazie allo sviluppo del 5G si presume possano diventare presto tecnologie molto attuali, mentre gli esoscheletri sono già una tecnologia assolutamente diffusa per l’assistenza e in altri diversi settori.
Un’altra persona che sicuramente ha fornito un contributo chiave in Sant’Anna è Paolo Dario. È stato e rimane un pioniere su diversi aspetti, con una visione sempre anticipatrice dei nuovi trend, capace di prevedere quelli che sarebbero stati gli scenari futuri. All’avanguardia per il modo di fare ricerca e per aver compreso che per realizzare ricerche originali e innovative fosse necessario viaggiare: disporre di una visione globale, investire nei laboratori di ricerca, fare sperimentazione per rendere concrete le proprie idee, al di là dei sogni.
Una figura importante è certamente anche quella della professoressa Maria Chiara Carrozza (attuale Presdiente del CNR, che ha scritto un ottimo libro intitolato “I robot e noi”, pubblicato da Il Mulino e AREL), per le sue ricerche nell’ambito del ruolo dei robot nella medicina e salute, intendendo i robot come ponte tra i due diversi mondi.
Come procede in Sant’Anna la collaborazione e la contaminazione tra diversi professori e Istituti secondo te?
Se parliamo della collaborazione tra colleghi, la mia percezione è di lavorare in un ambiente di scambio costante di idee e progetti: ho la sensazione di trovarmi in un luogo dove tante menti sono in sintonia. Purtroppo, a causa della pandemia, le occasioni per lavorare insieme dal vivo sono più limitate, ma si continuano a organizzare numerosi workshop, convegni, e le opportunità per sviluppare progetti comuni sono sempre presenti. Quello che cerco di fare personalmente è lavorare ogni giorno affinché l’interazione con gli altri gruppi di ricerca porti alla creazione di una squadra accordata in modo armonico.
In Sant’Anna è sicuramente presente tanta contaminazione positiva. Pensiamo al tema dell’open innovation: poter contare su due dipartimenti – quello di economia e management – con una visione così forte su questi temi, ha avuto un’influenza anche nei confronti di ingegneria. Potrei citare anche il campo del trasferimento industriale. Eccellere in questo settore è una conseguenza di scelte chiare e della visione anticipatrice di persone come il professor Riccardo Varaldo.
Per quando riguarda il sistema Italia, come vedi la situazione attuale?
Il mio sogno è vedere l’Italia diventare un attore protagonista, che riesce a valorizzare il potenziale incredibile del suo capitale umano. Nel mio istituto abbiamo la fortuna di confrontarci tutti i giorni con studenti di grande capacità, appassionati, con entusiasmo. Mi piacerebbe che questa onda di gioventù motivata si trasformasse in qualcosa di più, e che si ottenessero risultati concreti dalla grande energia potenziale di cui disponiamo come paese.
Di Alberto Di Minin e Marco Bonaglia