“Nell’oscurità e nella luce:
siamo i più vecchi e i più giovani,
siamo i più grandi e i più piccoli,
siamo la saggezza di un miliardo di anni,
siamo creazione, siamo resurrezione, condanna e rigenerazione.
Siamo… i funghi!”
Lo avrete notato: dalle copertine in libreria, ai documentari di Netflix (il testo dai toni epici che trovate qui sopra arriva proprio da “Fantastic funghi”, disponibile sulla piattaforma), sembra che i funghi abbiano colonizzato anche il mondo dell’intrattenimento e dei contenuti divulgativi. Un fascino al quale non siamo rimasti indifferenti e che ci ha portati a incontrare Mogu, realtà aziendale innovativa e promettente, che ha alla base lo studio e la creazione di biomateriali a partire dalla fermentazione fungina.
Abbiamo parlato di questo momento propizio per il settore insieme a Stefano Babbini, CEO e cofondatore di Mogu. «Si parla da un po’ di tempo di economia circolare e biomateriali e ormai siamo oltre le tematiche di sostenibilità nude e crude, quelle assimilate dalle campagne di marketing». Secondo Babbini nell’industria e nella produzione dei beni di consumo c’è la necessità di un approccio sostenibile concreto e meno demandato. «Il mondo dei materiali è diventato attuale perché è molto concreto: tutti abbiamo visto l’isola di rifiuti di plastica che galleggia nell’Oceano Pacifico». Nella concretezza del problema, Babbini vede anche la spinta delle persone a reagire e chiedere la produzione di materiali differenti, con l’utilizzo di nuove tecnologie. «L’industria non fa altro che seguire, perché è ciò che conviene fare. Ma è proprio grazie a una forte spinta dal basso che realtà come la nostra riescono a svilupparsi».
A partire dalla fermentazione fungina, Mogu realizza pannelli acustici e pavimentazione, pensati per l’interior design. «Impieghiamo una grande varietà di fibre a basso valore provenienti da diverse industrie come l’agroalimentare e il tessile, e le trasformiamo attraverso tecnologie proprietarie basate sulla fermentazione fungina. L’approccio è completamente circolare. Il micelio, mentre colonizza e in parte digerisce le fibre di scarto, agisce come rinforzo alla struttura della matrice, ottenendo materiali compositi naturali con eccellenti proprietà tecniche, da utilizzare in molteplici campi e per molteplici applicazioni». Le potenziali applicazioni di questa tecnologia sono moltissime, per non dire infinite. In seno a Mogu è nata infatti una seconda verticale, Ephea, concentrata sullo sviluppo e la produzione di un materiale alternativo alla pelle, anche se sarebbe più corretto definirla come «un insieme di prodotti che stabiliscono un nuovo standard, grazie ai valori, alle funzionalità e alle opportunità complessive offerte dalla biofabbricazione basata sul micelio». Il risultato di questo studio non solo esiste, ma è stato mostrato a tutto il mondo durante la settimana della moda di Parigi dello scorso febbraio, in occasione delle sfilate di Balenciaga. «I brand globali vivono una fase di affannosa ricerca» ci ha spiegato Babbini, «perché hanno capito che i nuovi materiali saranno presto un asset. Sono i grandi brand a dover dare una risposta globale e per questo sono in prima linea nel definire i codici di comportamento, le nuove specifiche tecniche, le sostanze proibite, gli obiettivi di sostituzione dei materiali non più sostenibili».
Dai pannelli alla pelle alternativa, la storia di Mogu non è nuova a sperimentazioni. La prima è stata mettere insieme i due fondatori: Babbini, che arrivava da dieci anni di lavoro nel campo delle biomasse, e Maurizio Montalti, designer e ricercatore già da anni al lavoro sullo studio della fermentazione fungina e la sua applicazione nella creazione di manufatti in micelio, da lui realizzati e venduti alle gallerie d’arte.
Poi è arrivato Mogu, ma prima c’è stato il garage. «Non era strutturato né organizzato: era proprio un garage, ma per fortuna aveva alle spalle gli anni di pratica di Maurizio. Non avevamo una direzione costruita a priori: l’abbiamo realizzata un passo alla volta, attraverso il coinvolgimento di altre persone e casi di studio, muovendoci in modo molto empirico, cosa che succede spesso quando si lavora a partire dal materiale e non dal prodotto». Alla tecnica si è quindi aggiunta la parte imprenditoriale e la visione industriale per cercare di andare in scala, scegliendo di accorciare la catena produttiva, uscire dai mercati incentivati e produrre localmente a partire da quelli che vengono considerati scarti: un termine che Montalti preferisce non usare, perché obsoleto nella sua visione, preferendo invece quello di risorse residue.
Risorse quindi, da interpretare come opportunità e non come problemi. Allo stesso modo, secondo Mogu, deve essere intesa la sostenibilità. «Abbiamo una questione aperta rispetto alle tecnologie ed è in queste che dobbiamo investire. Nel momento in cui decido di costruire un nuovo materiale per risolvere il problema di sostenibilità di un’intera filiera, sto affrontando la questione realmente. Così sono in grado di evolvere. Ecco perché quello della sostenibilità deve essere visto come una possibilità e non un problema: se invece di investire in soluzioni valorizzabili, spendi risorse in progetti di compensazione fuori dalla filiera industriale, il problema lo avrai sempre».
Di Alberto Di Minin e Norma Rosso