Negli ultimi anni, il nostro modo di vivere è stato completamente rivoluzionato dalla presenza di Internet e dalle forme di comunicazione che questa ha permesso di generare. Potremmo dire di vivere in un mondo nuovo, se considerassimo solo il mondo emerso. Perché quando si tratta di andare sott’acqua, tutto cambia: ogni sistema di trasmissione va ripensato, sostituito e reso compatibile alle condizioni fisiche presenti in mare. Creare modelli e sistemi di connessione sott’acqua non è un lavoro semplice, ma tra coloro che ci stanno riuscendo, una realtà di successo è quella di Wsense, la spin-off dell’Università Sapienza di Roma, nata nel 2017 e guidata da Chiara Petrioli.
Wsense è stata premiata a Davos, nel corso dell’ultimo World Economic Forum, come impresa più innovativa al mondo nella raccolta e gestione dei dati per la protezione dell’ambiente oceanico. Unica realtà italiana selezionata, Wsense si è così aggiudicata l’Ocean Data Challenge nell’ambito della sessione The Earth Data Revolution. Il premio va ad aggiungersi a una serie di riconoscimenti ottenuti per l’impatto sulla Blue Economy e, in particolare, per lo sviluppo sostenibile di questo settore: il Blue Invest Award della Commissione Europea (per aver sviluppato una tecnologia chiave per il monitoraggio della Terra), l’EIT Digital Challenge Scale Up dell’Unione Europea, e il premio GammaDonna 2022 come startup con una vision femminile.
Parlando con Chiara Petrioli – ordinaria di ingegnera informatica, ricercatrice, un passato da prorettrice alla Sapienza, nonché CEO di Wsense – abbiamo avuto la possibilità di apprezzare meglio il lavoro di ricerca e applicazione che si svolge all’interno di questa spin-off. Tornando alle premesse iniziali, lavorare alla trasmissione di informazioni in ambiente sottomarino significa ripensare tutti i sistemi coinvolti, alla luce delle differenti condizioni fisiche. Le tecnologie che si utilizzano sulla terra non funzionano in mare: le onde radio vengono fortemente attenuate dall’acqua, in particolare dall’acqua salata. Per trovare soluzioni a questi problemi, Petrioli ci ha spiegato che Wsense ha usato le modalità di comunicazione selezionate dai mammiferi marini in milioni di anni: la comunicazione acustica e, per distanze brevi, i sistemi ottici, quindi la luce.
Le prime attività di laboratorio sono iniziate dieci anni fa, quando il mondo iniziava a pensare a questo tipo di sistemi. Petrioli racconta che lei e il suo gruppo di ricerca (formato, allora e tuttora, da un nutrito gruppo di giovani di talento) si sono ritrovati a confronto con il mondo intero, scoprendo di avere in casa le idee migliori su come creare delle reti wireless adattive per il contesto sottomarino. «Dagli Stati Uniti siamo rientrati in Italia per fare sperimentazioni e, anche grazie a campagne internazionali, abbiamo creato all’interno della Sapienza i brevetti internazionali per l’Internet underwater».
La tecnologia si è rivelata da subito abilitante per tanti settori in cui era presente la necessità di avere i dati per ottimizzare i processi e conoscere meglio gli oceani. Dati che fino a quel momento non avevano la precisione sufficiente a supportare le necessità applicative. «Intorno al secondo anno di attività c’è stato un evento particolare. Mentre stavamo lavorando alla protezione delle coste, siamo stati contattati dal secondo produttore di acquacoltura norvegese, che ci ha chiesto di realizzare delle soluzioni per la digitalizzazione delle gabbie, dove allevano 250.000 salmoni. Il loro obiettivo era diminuire il tasso di mortalità, ma al tempo stesso volevano sviluppare il settore in modo più sostenibile. Erano quindi interessati al monitoraggio di una serie di parametri, come l’ossigeno disciolto, la temperatura, le correnti, e così via. Ci hanno chiesto di sviluppare una versione di dei nostri sistemi che potesse durare nel tempo, essere semplice da dispiegare, a basso costo, che potesse essere addirittura miniaturizzata per creare dei sistemi indossabili dai pesci e trasmettere dati in tempo reale».
Questa esperienza ha forzato Wsense a spingere ai limiti le tecnologie che avevamo sviluppato, permettendo loro di scalare, diminuire i costi e rendere il loro prodotto accessibile per più settori. «A un certo punto queste tecnologie sono diventate utili per svariati ambiti del settore di monitoraggio ambientale multiparametrico, e sono state estese al monitoraggio del rumore, delle tensioni degli ancoraggi, e alla trasmissione in tempo reale di immagini dalle profondità marine. Abbiamo anche cominciato a realizzare l’infrastruttura di comunicazione per i futuri sistemi autonomi robotici per l’offshore, un’area nella quale collaboriamo con Saipem (piattaforma tecnologica e di ingegneria avanzata per la progettazione, la realizzazione e l’esercizio di infrastrutture e impianti complessi, sicuri e sostenibili, n.d.r.). Ci siamo così resi conto di tutti i possibili ambiti di applicazione, che spaziano nei diversi settori della Blue economy, dal mondo dell’energia, al monitoraggio delle infrastrutture critiche offshore, al monitoraggio ambientale e dei cambiamenti climatici, alla valorizzazione dei siti turistici e dei beni archeologici sommersi, all’acquacultura, cosa che ci ha permesso di fare un salto come deep tech e provare a scalare a livello globale». Oggi in Wsense lavorano circa cinquanta persone, tra la sede italiana di Roma, quella norvegese di Bergen, e la britannica di Southampton. «Una delle più grandi soddisfazioni», racconta Petrioli, «è che continuiamo a crescere e attrarre ricercatori, ultimamente anche da fuori». Dimostrando così che anche da Roma, e dall’Italia, è possibile lavorare a soluzioni di impatto capaci di generare un nuovo paradigma. Non senza alcune difficoltà. «Quello che manca è l’ecosistema, ma dovremmo avere l’ambizione di costruirlo. È una questione di vision e di talenti: abbiamo entrambe le cose qui, in Italia, e possiamo trasformarle nel nostro futuro. Lavorare ogni giorno per dimostrarlo è qualcosa che ci riempie di orgoglio».
Di Alberto Di Minin e Norma Rosso