#China Issues con Lorenzo Lamperti. Relazioni internazionali e il fattore Taiwan

Abbiamo il piacere di ospitare a China Issues Lorenzo Lamperti, giornalista professionista, di base a Taipei. Si occupa di Asia orientale, con particolare attenzione agli intrecci tra politica, tecnologia e produzione culturale. Collabora con diverse testate e think tank, tra cui La Stampa, Radiotelevisione Svizzera Italiana e Ispi. Ha curato diversi ebook tematici su Cina e Asia per la piattaforma China Files. 

Qual è il quadro attuale del panorama politico di Taiwan?

Dopo le elezioni del 2024 la già forte polarizzazione politica che caratterizza Taiwan si è ulteriormente radicalizzata. Il governo guidato dal Partito Progressista Democratico (DPP) del presidente Lai Ching-te, considerato un “secessionista” da Pechino, ha fatto segnare un cambio di passo (innanzitutto retorico) sulle relazioni intra stretto con la Cina continentale. Pur facendo parte dello stesso partito della moderata ex presidente Tsai Ing-wen, diverse mosse di Lai hanno di fatto tolto ambiguità allo status di Taiwan. Gli scontri (persino fisici) con l’opposizione si sono intensificati. Il Kuomintang (KMT), pur avendo perso per la terza volta consecutiva le presidenziali, è il partito con più seggi in parlamento. Il DPP denuncia ostruzionismo, a partire dai tagli al budget fiscale. Il KMT lamenta un “maccartismo verde”, dal colore simbolo del DPP, in particolare per il lancio di una campagna di rimozione dei deputati rivali al partito di maggioranza. Il terzo incomodo della politica taiwanese, il Taiwan People’s Party (TPP), è invece nei guai dopo l’arresto del suo leader Ko Wen-je, in attesa di processo con l’accusa di corruzione.

Che effetto stanno avendo le prime decisioni di Trump su Taiwan?

Donald Trump si è approcciato alla questione Taiwan in modo molto diverso rispetto all’inizio del suo primo mandato. A dicembre 2016, da presidente in carica, ebbe un colloquio telefonico con Tsai. Primo e unico caso di dialogo ufficiale dei leader di Washington e Taipei dalla rottura delle relazioni diplomatiche ufficiali del 1979. Stavolta ha tenuto un profilo basso e anzi ha criticato Taiwan a cui ha chiesto di aumentare le spese militari e di spostare la produzione della sua strategica industria dei chip sul territorio degli Stati Uniti. TSMC, primo colosso del settore, ha ceduto al pressing e ha annunciato maxi investimenti per 100 miliardi di dollari negli Usa. Mossa che preoccupa diversi taiwanesi di una possibile erosione del cosiddetto “scudo di silicio” dell’isola. Il governo di Taipei starebbe preparando una serie di acquisti di armi per provare ad ammansire la Casa Bianca. In parecchi hanno osservato con sgomento la recente dinamica dei rapporti tra Washington e l’Ucraina, anche se dal Pentagono arrivano rassicurazioni sull’interesse in merito alle sorti dell’isola. Ancor di più che sul fronte bilaterale, le preoccupazioni di funzionari ed esperti si concentrano sul fronte regionale, col timore che le mosse di Trump (a partire dai dazi) possano incrinare l’architettura di sicurezza asiatica che era stata invece rinvigorita da Joe Biden.

Che atteggiamento ha l’Europa verso Taiwan nell’attuale contesto internazionale?

In questa fase, l’Europa appare piuttosto lontana. Al di là delle dichiarazioni ufficiali sull’importanza della stabilità dello Stretto di Taiwan nelle sedi multilaterali e non, Taipei sa che con le dinamiche commerciali e strategiche attuali l’Europa mira a un possibile miglioramento dei rapporti con la Cina. L’enorme aumento degli investimenti negli Stati Uniti potrebbe peraltro causare un rallentamento della cooperazione Taiwan-Europa sui chip, settore a cui sono fortemente interessati i vari governi occidentali.

Di Alberto Di Minin e Filippo Fasulo