“Devo molto del mio successo a ciò che ho letto sui suoi libri”. Questo l’estremo saluto a Clayton Christensen, da parte di del CEO di Netflix, Reed Hastings. Christensen professore dell’Harvard Business School, che nel 1997 scrisse “il dilemma dell’innovatore”, è scomparso il 23 gennaio dopo una lunga malattia. Hastings non è solo. Contribuì clamorosamente al successo di Christensen anche il leggendario fondatore di Intel, Andy Grove che, pochi mesi dopo l’uscita del libro, salì sul palco della fiera COMDEX con una copia del Dilemma dell’Innovatore in mano, dicendo semplicemente “Questo è il libro più importante del decennio!”. All’epoca Christensen era un giovane ricercatore, aveva preso il suo dottorato da appena 5 anni, ma si stava già distinguendo per i suoi lavori sul marketing delle tecnologie e la diffusione dell’innovazione. Da allora, le sue conferenze, le sue lezioni e i suoi articoli ricevettero un’attenzione incredibile, perché di fatto davano un nome all’immensa forza di cambiamento che veniva sprigionata dalla convergenza tra mondo delle telecomunicazioni e informatica.
Lo definisce il “gigante gentile” dell’innovazione, Michael Horn, collega di una vita e cofondatore della thinktank Christensen Institute. Gigante non solo per la sua altezza fisica, ma anche per la presenza che ognuno avvertiva quando entrava in un’aula, catturando per ore l’attenzione di studenti, manager e imprenditori, con un approccio molto concreto, estremamente empatico. Gentile, perché Christensen era un gigante anche nella sua spiritualità e nella sua umanità. Quasi un ossimoro questa sua gentilezza, visto che alla storia il Prof Christensen passerà come Mr.Disruption, perché fu lui a coniare il termine Disruptive Innovation. In realtà, l’attività di ricerca di Christensen era ossessionata dal capire come mai i leader di mercato, le aziende più innovative del mondo, quelle che fanno tutto giusto, investono e ricercano, cadono vittime di nuove tecnologie e modelli di business. Con chiarezza Christensen fornì una chiave interpretativa di marketing e di strategia al fenomeno dell’innovazione, mettendo al centro un paradosso fino allora ignorato, un atteggiamento miopico da parte di leader di industrie che, ascoltando le richieste della maggioranza dei loro clienti, ignorando i segnali deboli e facendo quadrato attorno alle metriche tradizionali del loro successo, accumulavano, errore dopo errore, ritardi insormontabili nei confronti della concorrenza.
Nel 2003, Christensen pubblicò “The Innovator’s solution”, valorizzando l’incredibile visibilità e l’enorme esperienza che aveva accumulato insieme al suo team di ricerca. Anche questa volta, l’idea chiave del libro, che cioè l’azienda potesse essere in grado di dominare una disruption, interiorizzandola, guidandola dal suo interno, diventò il punto di riferimento per il mondo del corporate venturing. Con il nuovo millennio, Christensen applicò le sue teorie agli ambiti più svariati, dall’università al mondo degli ospedali, che purtroppo iniziò a frequentare per via delle sue malattie, ma che attraversava con l’occhio dello studioso di innovazione.
Christensen si occupò anche di politica industriale, sostenendo che l’unica innovazione da incentivare con risorse pubbliche fosse quella che abilitava nuovi modelli di business e mercati, proprio per le sue caratteristiche disruptive.
L’impianto concettuale del programma quadro Horizon Europe si ispira fortemente alla necessità di sostenere questo tipo di innovazione anche a scapito di forme più incrementali e progressive. Diversi stati europei hanno abbracciato questo approccio anche per le loro politiche nazionali.
In Italia, i lavori di Christensen hanno fatto breccia solo in parte. C’è ancora molta confusione su quello che vuol dire disruptive innovation: si pensa sia qualche cosa di cui si occupano le start-up, da cui un’azienda consolidata deve solo difendersi. Le ricette per sfruttare questo fenomeno non sono diffuse in un contesto come il nostro, caratterizzato invece da posizioni di leadership industriale che beneficerebbero immensamente di una presa di coscienza sul fenomeno.
Christensen invita tutti noi ad aprire il cassetto in cui teniamo nascosto quel sogno, quel progetto di cambiamento da cui le priorità del business-as-usual o la paura dell’ignoto ci tengono lontano. Ci ha esortato ad agire, ci ha insegnato come guidare il cambiamento valorizzando quello che di buono abbiamo fatto, prima che sia troppo tardi. Ci mancherà.
Di Alberto Di Minin
–Publicato sul Sole 24 Ore Domenica 02/02/2020–