Ve lo ricordate SpongeBob? La spugna gialla, con gli occhi grandi e il cravattino rosso, protagonista di svariate avventure sottomarine nel cartone animato che porta il suo nome? Se non ve lo ricordate non è grave, ma nel leggere questo articolo vorrei che aveste chiara in mente l’immagine di una spugna: qualcosa che, per sua natura, assorbe e rilascia.
Con questa idea in testa facciamo un salto di qualche decennio e torniamo al 1990, quando i due economisti americani Wesley M. Cohen e Daniel A. Levinthal pubblicarono un articolo sulla rivista Administrative Science Quarterly intitolato “Absorptive Capacity: A New Perspective on Learning and Innovation”. Questo pezzo codifica l’idea di un’organizzazione spugna, che assorbe e reinterpreta informazioni apprese, che acquisisce la capacità di utilizzare nuove conoscenze investendo appunto nella sua capacità di assorbimento, perché tanto più un individuo (o un’organizzazione) è vicino all’oggetto di apprendimento, tanto maggiore sarà l’efficacia dell’apprendimento stesso. Ai miei studenti di economia la spiego così: se vi illustrassi i risultati dei miei ultimi studi di astrofisica probabilmente non capireste molto, ma se vi parlo dell’azienda e del suo funzionamento è auspicabile che qualcosa vi rimanga in testa.
In altre parole, per acquisire e comprendere la rilevanza di nuova conoscenza è fondamentale padroneggiare le basi di quella materia. Il lavoro di Cohen e Levinthal ebbe un successo pazzesco: da quando è uscito, nel 1990, l’articolo è stato citato quasi 50.000 volte da successive pubblicazioni. Si tratta cioè di uno dei pezzi più influenti mai scritti nell’ambito dell’economia e management dell’innovazione, perché riporta a livello organizzativo un ragionamento che parte dalle modalità di apprendimento individuale, illustrando in maniera convincente che un’azienda deve investire in ricerca e sviluppo per poter presidiare – tramite nuova conoscenza interna ed esterna – le novità e le innovazioni di un dato settore o ambito tecnologico.
L’idea si è diffusa, e oggi è molto probabile che aziende di ogni dimensioni insistano sulla necessità di investire assumendo tanti SpongeBob per presidiare gli ambiti tecnologici più promettenti. Pochi giorni prima di Natale ho avuto il piacere di chiacchierare con uno di loro: Giuseppe Bengasi, chimico siciliano premiato lo scorso anno in Lussemburgo per la sua tesi di ricerca di dottorato e che da un anno è al lavoro per 3SUN, la fabbrica di pannelli fotovoltaici di Enel con sede a Catania. Bengasi di mestiere fa lo SpongeBob, ma andiamo con ordine.
È proprio dalla Sicilia che voglio iniziare a raccontarvi di lui, risalendo alle origini della sua famiglia fino al nonno paterno, un trovatello al quale decisero di assegnare il cognome Bengasi perché in quel momento l’Italia era in guerra con la Libia. Da bambino analfabeta addetto alla guardia delle pecore, nonno Bengasi si è fatto strada. Durante la guerra, scambiava uova per sapone, facendo la spola da Assoro – il paese dell’entroterra nel quale viveva – a Catania. Con il tempo, le uova hanno iniziato a essere scambiate in aghi, poi in filo e ancora in stoffa, fino a trasformarsi in un negozio di abbigliamento di tre piani, tuttora attivo e portato avanti dai genitori di Giuseppe.
Al quale però non interessava l’ambito dell’abbigliamento, essendo da sempre affascinato dalla scienza e in particolare dalla chimica. Dopo la laurea, ha deciso di proseguire nella formazione accademica e di farlo all’estero, non vedendo per sé prospettive interessanti nell’Italia di qualche anno fa. È iniziata così la sua esperienza di dottorato tra Lussemburgo e Germania. Tre anni nei quali racconta di aver avuto la fortuna di incontrare maestri eccezionali: veri e propri leader, intenzionati a spendersi perché chi è sotto di loro possa crescere. Il frutto di questi anni di ricerca è stata una tesi, premiata dal Luxembourg Institute of Science and Technology come .
Bengasi mi ha raccontato di essere stato felice per il premio e al tempo stesso stupito nel leggere la motivazione di questo riconoscimento, cosa che ho visto accadere spesso a chi segue progetti dall’interno ed è troppo concentrato sul proprio lavoro per vedere tutta la luce che questo emana. L’obiettivo della ricerca era copiare la natura e sviluppare polimeri a base di porfirina – una classe di composti molto importanti dal punto di vista biologico – consentendo in questo modo altre reazioni, come la produzione di idrogeno pulito. «Eravamo partiti da un’idea base, di ricerca pura» spiega Bengasi, «dalla quale abbiamo sviluppato sia un dispositivo che trasforma la luce solare – o la corrente elettrica – in idrogeno, sia un sensore per l’ammoniaca. Tutto lavorando a un processo che fosse industrialmente compatibile e che abbiamo brevettato». Una serie di salti, questa, che raramente si vede realizzata in una ricerca di dottorato.
Da Lussemburgo voliamo a Catania, dove Bengasi ha deciso di tornare per stare più vicino alla sua famiglia e dove, grazie al networking, ha trovato spazio in 3SUN di Enel. Oggi il suo lavoro ha come obiettivo ottimizzare il costo di produzione di un Watt di energia. Nella pratica, consiste principalmente in due cose: intercettare tutto il know-how presente sul mercato e fare esperimenti in laboratorio sull’utilizzo e la modifica delle proprietà dei materiali, tramite processi chimici e fisici. «A Catania ho trovato un livello di competenze eccezionale: in un anno ho imparato tantissimo, cosa che non sarebbe successa se fossi rimasto in accademia. In una realtà di ricerca industriale acquisisci una visione d’insieme e il tatto per capire cosa serve per fare innovazione». Bengasi mi ha raccontato il suo processo di lavoro, fatto per buona parte di analisi attenta della letteratura, attraverso la quale cerca di capire cosa succede in giro, negli ambiti e nelle realtà di ricerca più interessanti. «Ho riscontrato che le riviste considerate minori a livello accademico, sono per me quelle più importanti». Perché spesso è in queste che si possono trovare informazioni fondamentali per l’industria, che fanno i conti con l’effettiva realizzabilità di un processo o di una nuova tecnologia. «Le applicazioni industriali richiedono conoscenza del dibattito scientifico, ma anche, e soprattutto, l’applicazione di pensiero laterale che a volte si perde perseguendo l’ortodossia accademica».
E se da una parte l’entusiasmo di Bengasi per il suo lavoro è evidente, non manca però di una buona dose di realismo, con il quale sottolinea la carenza di attrattività dei posti di lavoro italiani per i suoi colleghi stranieri. «Ci vuole uno sforzo da parte delle aziende per rendere i salari più attrattivi. Lo Stato sta già mettendo delle risorse in campo: la legge sul rientro dei cervelli è senza dubbio uno strumento di agevolazione fiscale importante, ma nonostante questo, il mio stipendio non è competitivo rispetto a quello dei miei colleghi tedeschi!»
Giuseppe dice di non avere la soluzione in tasca, ma credo anche io che la scarsa competitività dei salari italiani rischi di allontanare dal nostro paese i ricercatori, e gli SpongeBob più capaci.
Consoliamoci per ora con questa bella storia di andata e ritorno, che dimostra ancora una volta come i Fuoriclasse che si fanno un giro all’estero poi rappresentano per l’Italia una risorsa da sfruttare, qualora si presentano le opportunità adatte. E approposito di opportunità, ecco qua un bando, rivolto a giovani economisti aziendali, per una posizione di Ricercatore Universitario nel mio gruppo di Management dell’Innovazione al Sant’Anna di Pisa.
Di Alberto Di Minin e Norma Rosso