Venerdì 9 Febbraio l’ospite del corso “China Issues” della Scuola Superiore Sant’Anna è stato Simone Dossi, Professore associato di Scienza politica dell’ Università degli studi di Milano e direttore di OrizzonteCina. Nel suo intervento si è occupato di Sicurezza in Cina sotto Xi Jinping e in particolare del caso studio dello spazio cibernetico.
Quali sono le sfide di sicurezza principali attualmente in Asia orientale?
Dal punto di vista delle dinamiche di sicurezza, la sfida principale è rappresentata dalla crescente frizione fra Cina e Stati Uniti. Si tratta di una frizione in un certo senso strutturale, cioè derivante dalla trasformazione del sistema internazionale, con l’ascesa della Cina e le incertezze che questo comporta per il futuro dell’egemonia americana nella regione e non solo. Proprio in Asia orientale, in particolare nell’Asia orientale marittima, si colloca la principale linea di faglia di questa trasformazione strutturale.
Nei mari dell’Asia orientale, il Mar cinese orientale e il Mar cinese meridionale, Cina e Stati Uniti coltivano interessi contrastanti, che rischiano di alimentare una competizione a somma zero. Da un lato la Cina detiene in questa regione interessi cruciali, a partire dalla questione di Taiwan. Grazie alle crescenti risorse disponibili, anche di natura militare, Pechino punta quindi a ostacolare la capacità di Washington di intervenire nella regione (o di “interferire”, nella prospettiva cinese).
È per questo che Pechino lavora da tempo al potenziamento di quelle che nel lessico dottrinale americano vengono definite capacità di “anti-access/area denial”, cioè capacità finalizzate ad accrescere il costo della proiezione di potenza militare americana nella regione. Dall’altro lato, però, anche gli Stati Uniti detengono interessi cruciali in questa regione: in particolare, l’interesse a preservare una propria presenza politica, economia e anche militare. L’egemonia globale americana si fonda in ultima istanza sulla capacità americana di proiettare potenza in ciascuno dei contesti regionali in cui si articola il sistema internazionale. Da questo punto di vista, il rafforzamento delle capacità di interdizione cinesi rappresenta un problema, poiché rischia di mettere in dubbio – agli occhi degli alleati regionali di Washington – la credibilità dell’impegno americano a loro sostegno.
Di qui l’attenzione prestata dagli Stati Uniti, sin dall’amministrazione Obama, per il potenziamento della proiezione verso la regione, per esempio attraverso un più deciso coinvolgimento nelle controversie marittime fra la Cina e gli altri Stati costieri del Mar cinese meridionale. Già nel 2010 gli Stati Uniti hanno dichiarato un interesse nazionale alla libertà di navigazione nella regione, inserendosi con ciò in una controversia sino ad allora di natura essenzialmente regionale.
Come si inserisce lo spazio cibernetico in questo contesto?
Lo spazio cibernetico costituisce un’ulteriore arena di competizione fra Cina e Stati Uniti. Si tratta di una nuova arena, oggetto di valutazioni in parte differenti in Occidente e in Cina. Gli osservatori occidentali tendono spesso a considerare lo spazio cibernetico come un’arena in cui soggetti più deboli sono strutturalmente avvantaggiati rispetto a soggetti più forti. Le soglie di accesso alla nuova arena sarebbero infatti comparativamente basse: la natura della tecnologia consentirebbe cioè di sviluppare strumenti offensivi a costi contenuti. In un’immagine, il costo da sostenere per sviluppare un’arma cibernetica sarebbe incomparabilmente inferiore al costo da sostenere per sviluppare un aereo militare all’avanguardia.
Questo consentirebbe ad attori deboli (attori non statuali, ma anche Stati relativamente meno avanzati dal punto di vista delle tecnologie militari) di colmare il divario esistente con attori più forti negli ambiti di competizione più tradizionali. In questo senso, nella pubblicistica occidentale la Cina è spesso considerata come uno dei beneficiari della nuova arena, cui Pechino guarderebbe per colmare asimmetricamente il divario che ancora la separa dagli Stati Uniti in ambiti tradizionali.
Viceversa, in Cina la percezione prevalente è che la nuova arena consolidi ulteriormente il predominio americano. Se la soglia di accesso allo spazio cibernetico è relativamente bassa, secondo gli osservatori cinesi ciò non significa però che tutti gli attori che vi accedono siano poi in grado di operarvi con eguale efficacia. La capacità di trarre vantaggio dalla nuova arena dipenderebbe infatti dal complessivo grado di avanzamento tecnologico – terreno sul quale la Cina sarebbe ancora in posizione di inferiorità rispetto agli Stati Uniti, che vengono considerati come vero e proprio “egemone cibernetico” in conseguenza del “controllo monopolistico” esercitato su alcune tecnologie cruciali.
Ciò non toglie, al tempo stesso, che la nuova arena possa però offrire anche alcune opportunità a un attore, come la Cina, in posizione di relativa inferiorità. Recuperando alcune tradizionali categorie del pensiero strategico di Mao, osservatori cinesi affermano che la superiorità dell’egemone non sia superiorità assoluta bensì relativa e che, anche nello spazio cibernetico, sia possibile per la Cina ricavarsi nicchie di superiorità “locale” dalle quali fare uso della nuova arena in modo asimmetrico.
Come deve porsi l’Italia nei confronti di queste sfide quando si relaziona con l’Asia orientale?
Le frizioni crescenti fra Cina e Stati Uniti in Asia orientale pongono un dilemma per gli alleati europei degli Stati Uniti, Italia inclusa. Si tratta del tradizionale dilemma delle alleanze: il dilemma tra il rischio di abbandono e il rischio di intrappolamento. È evidente che per gli Stati Uniti la partita centrale per la preservazione dell’egemonia si gioca in Asia orientale e altrettanto evidente è quindi il tentativo di Washington, sin dall’amministrazione Obama, di ottenere un più diretto impegno europeo in questo quadrante.
Ma questo pone per gli alleati europei due opposti rischi, tra i quali occorre trovare un bilanciamento. Da un lato, se gli alleati europei declinano le ricorrenti aspettative americane di un maggiore impegno in Asia orientale rischiano di apparire agli occhi di Washington come sostanzialmente irrilevanti rispetto alla partita decisiva: peggio, rischiano di apparire come una zavorra e di essere come tale abbandonati. Dall’altro, se accolgono con entusiasmo le richieste americane e si allineano a Washington nella partita dell’Asia orientale rischiano di rimanerci intrappolati, sopportando costi potenzialmente elevati a fronte di interessi quanto meno incerti. È questo il dilemma cui gli alleati europei degli Stati Uniti, Italia compresa, si trovano di fronte. L’unico modo per affrontarlo è attraverso un dibattito aperto e plurale sulla partita in corso, sugli interessi che sono in gioco e sui costi che, come europei, siamo disponibili a sostenere.
Qual è la natura della competizione in corso in Asia orientale? Si tratta di una competizione ideologica, come spesso ci viene rappresentata dai media, fra democrazia e autoritarismo? O si tratta di una più tradizionale competizione per il potere? Quali sono gli interessi europei in gioco in questa partita? E, prima ancora, vi sono realmente interessi europei direttamente in gioco? Quali i costi che siamo disponibili a sopportare, anche alla luce dei costi che già stiamo sostenendo in altre partite a noi più vicine? Credo che solo un dibattito franco attorno a questi interrogativi, un dibattito in un certo senso “grand-strategico”, possa consentirci di affrontare con consapevolezza i dilemmi che la competizione crescente in Asia orientale solleva. Viceversa, sarebbe preoccupante una corsa all’“Indo-Pacifico” priva di visione strategica, come alcuni recenti segnali inducono a temere: se fine a se stessa, l’ansia di “mostrar bandiera” in Asia orientale promette di condurci dritti all’intrappolamento.
Di Alberto Di Minin e Filippo Fasulo