OI in Life Science, Cap. III: Elena Zambon

Nei giorni dell’annuncio dell’investimento da 43 milioni di euro per il raddoppio di OpenZone, campus dedicato alle Scienze della Vita situato a Bresso (vicino Milano), abbiamo intervistato Elena Zambon, Presidente dell’omonimo gruppo farmaceutico, che nel 2014 ha esplicitamente orientato la cultura aziendale verso un’apertura alle collaborazioni extra moenia in un’ottica  di sostenibilità del business e di generazione di valore sociale.

Che la Dottoressa Zambon creda ed applichi costantemente i principi tipici dell’ “organizzazione aperta” è dimostrato dal fatto che essa stessa si è fatta promotrice della traduzione in Italia ed autrice della prefazione dell’omonimo libro di Jim Whitehurst (pubblicato da Garzanti).

Quella che segue è un’intervista densa di contenuti, che riflette tanto l’apertura all’innovazione quanto, soprattutto, un approccio votato all’empatia e al perseguimento di un a visione a lungo raggio.

Alberto Di Minin (ADM): Presidente, da varie fonti si legge che il Gruppo Zambon S.p.A. è un'”organizzazione aperta”, da dove nasce questa idea?
Elena Zambon (EZ): Oggi si fa un gran parlare di open innovation & open organization, intendendole come il risultato di uno smantellamento delle gerarchie organizzative e un “livellamento” dei ruoli aziendali, tali per cui “tutti contano allo stesso modo”. Di fatto, quando si cerca di realizzare un tale cambiamento nei concreti spazi della vita organizzativa è facile scontrarsi con chi, abituato agli organigrammi e alla definizione delle mansioni e posizioni professionali, teme di instaurare un caos organizzativo in cui “Nessuno sa più chi fa che cosa”.
Al tempo in cui scrissi la lettera di Natale 2014 in cui annunciavo lo shift verso un modello organizzativo aperto agli input di ognuno (dentro e fuori), di fatto mi scontrai con una reticenza di fondo da parte di chi non concepisce o non capisce l’essenza di una tale modalità di pensiero-concezione dell’organizzazione e dell’impresa. C’è stato un lungo processo per diffondere una coscienza in merito alla filosofia dell’organizzazione aperta, che è stato senz’altro aiutato dalla lettura del libro di Whitehurst. Questo autore ha decodificato in principi gran parte di quelle azioni che fino ad allora avevo fatto “di pancia” senza mai ricondurli a un paradigma aziendale. Leggere il libro mi ha dato la prova che mi serviva a capire che in fondo non ero l’unica a pensarla così! L’ideale da cui stavo partendo era quello di un’azienda fondata su valori ed ideali ma anche sulla consapevolezza critica dei propri limiti (tecnici e conoscitivi).
Scrittori e studiosi di management devono fare da traduttori di quei linguaggi che, come nel mio caso, sono troppo imprenditoriali o relativi ad un proprio specifico sogno. Fondamentale è che si proceda ad una decodifica di questi slanci imprenditoriali e manageriali. Qualcuno ha il compito di rendere queste intuizioni  concettualmente strutturati e condivisibili.

ADM: Proprio nella prefazione al libro di Jim Whitehurst, lei commenta anche che “Per aprirsi al nuovo, anche quando esso è rappresentato da altri, è necessario saper e voler ascoltare, essere “altrocentrici” rinunciando al potere personale, tenendo sotto controllo il proprio ego a favore della collaborazione tra persone diverse”: le vengono in mente ambiti in cui l’essere altrocentrici si è tradotto in scelte organizzative per la sua azienda?
EZ: Alla base dell’organizzazione aperta (o comunque la si voglia chiamare) sta lo spirito dell’imprenditore, ovvero di quelle persone che per natura sanno cogliere i segnali dalla realtà/ambiente in cui vivono, traducendoli in opportunità e azioni di business e che con le loro azioni riescono  a rispondere a bisogni concreti, magari quando sono ancora a uno stato latente.
Già prima dell’avvento della terza generazione, in Zambon si era capito che era necessario dialogare, interagire e ragionare con persone di estrazioni “estranee”, che potevano dare spunti di business diversi dal solito: mio nonno Gaetano Zambon nominò presidente Emilio Gherardi, nonostante quest’ultimo fosse proprietario di un’azienda farmaceutica concorrente.
In quell’azione, Gaetano ha fatto un gesto  altrocentrico, riuscendo a mettersi da parte addossandosi la responsabilità sociale di erogare stipendi e garantire un futuro ai propri lavoratori.
L’impostazione di affiancare a un presidente Zambon un CEO esterno alla famiglia è tutt’ora perseguita in azienda ed evidenzia come la separazione dei ruoli sia al contempo causa ed effetto dell’accettazione, da parte dell’imprenditore, che ci siano altri molto più bravi di lui a governare. Per la famiglia imprenditoriale, monitorare, osservare e diffondere una visione di lungo periodo diventa il ruolo primario; ma è il management, con una miglior percezione di business, a trasporre la vision su piani operativi.

ADM: Musica per le mie orecchie! Qualche tempo fa insieme ai colleghi De Massis e Frattini, ho scritto di “Family Driven Innovation” evidenziando le peculiarità dell’innovazione gestita nelle aziende familiari. Il messaggio è molto rilevante per le aziende italiane che tentano di gestire il loro business coniugando innovazione aperta e tradizione. Cosa ne pensa? 
EZ: L’open mind ha direttamente a che fare con l’impostazione della governance: è importante che chi tiene le redini del business sappia prendere ispirazione da altri modelli là fuori.
Nelle family firm rimane della famiglia imprenditoriale la responsabilità dell’assunzione del rischio. Compito della famiglia è mettere a disposizione le risorse necessarie per ottemperare alla visione delineata, di monitorare i livelli di performance che vengono raggiunti. Nelle family firm si sente molto più il bisogno di bilanciare l’heritage aziendale (incarnato dai valori e dall’etica aziendali che promanano dalla proprietà) e il cambiamento (nuovi modelli di business, ampliamento dei mercati serviti..). E’ questo bilanciamento tra heritage e cambiamento che può preservare valore.
Nel business il tempo assume senso solo realizzando processi di cambiamento che siano fondati sui risultati raggiunti e si rivolgano in modo realistico verso il futuro. Cruciale diventa il set di valori che, stabiliti dalla famiglia imprenditoriale, fungono da collante tra proprietà, management e lavoratori: le family firm in Italia possono davvero creare innovazione e “fare la differenza”, purché non perdano quel soffio ispiratore caratterizzato dalla passione nel contribuire e dalla volontà di lasciare un segno duraturo. Internazionalizzazione e Open Innovation offrono spunti per direzionare questo soffio e fungono da  sollecitazioni per mantenerlo vivo .
Per molte aziende in Italia “ciò che è stato fatto è diventato un fattore frenante che impedisce di crescere sui mercati: oggi vedo molti casi in cui le generazioni successive di imprenditori procedono nel solco di cosa l’azienda ha fatto  fino a quel momento  e si arenano… Questo è uno dei più grandi peccati della borghesia imprenditoriale italiana. Per converso, non abbiamo ancora sperimentato la resilienza generazionale di queste dinamiche nei settori dell’high-tech, dove si assiste a un cambiamento continuo e al prosperare di nuovi modelli di business, ma che di fatto sono ancora popolati da imprenditori di prima generazione: sapranno i figli fare meglio dei padri?

ADM: L’implementazione dell’Open Innovation passa attraverso una corretta gestione delle conoscenze e delle risorse umane. Giancarlo Michellone, alla guida del Centro Ricerche FIAT negli anni 90 insisteva nella definizione  del “ricercatore con la ventiquattrore”: ognuno deve essere capace e pronto di spiegare internamente ed esternamente la propria scheda-progetto (oggi diremmo business plan) caratterizzante la propria iniziativa, e essere disponibile a trasferirsi insieme alla tecnologia  presso l’azienda cliente. All’epoca questa figura del ricercatore con la ventiquattrore fece storia, allontanandosi dalle impostazioni, tipiche fino ad allora, che concepivano le attività aziendali come silos incomunicabili.
EZ: Non posso che fare mia questa immagine del ricercatore con la ventiquattrore: non per nulla, lo stesso Fluimucil fu portato sul mercato italiano dopo che mio padre ebbe mandato il professor Ferrari, uno dei migliori ricercatori Zambon, nei laboratori americani. Il Professore fu esposto ai vari prodotti sviluppati dall’azienda ospitante, tra i quali figurava anche un “antibiotico, che riusciva solo a sciogliere il muco”… Fu proprio in seguito a quel contatto che i ricercatori Zambon aprirono l’intera classe dei mucolitici: partendo dallo scarto di qualcun altro!
Il talento italiano ben si adatta alla logica dell’Open Innovation, come testimonia il caso Fluimucil, ma come anche tante altre storie nelle life sciences: grazie alla nostra impostazione ed educazione umanistica, siamo più orientati alla multidisciplinarietà e riconosciamo i limiti dell’iper-specializzazione del sistema anglosassone. Gli americani mancano di una visione olistica e della capacità di integrare diverse componenti afferenti anche a diversi settori industriali e spesso necessitano di qualcuno che metta insieme i pezzi del puzzle.

ADM: Quando si parla di OI si parla sia di inbound (essere permeabili a input dall’esterno) ma anche di approccio outbound, tale per cui ci si rende conto che la propria azienda non basta per far trovare la valorizzazione appropriata a un progetto: un’azienda industriale può pensare di impacchettare le tecnologie in servizi e prodotti adatti ad inserirsi in strategie e network di partnership: quanto la sua azienda ha riflettuto su questo aspetto?
In Zambon non solo ci abbiamo riflettuto, ma abbiamo anche agito in merito.
Il capo della ricerca del settore chimica proveniva dal Sincrotrone di Trieste, che è stato appunto supportato dai chimici di Zambon nella brevettazione di un metodo per identificare una determinata molecola. Poiché tra i clienti della Zambon-Chimica c’erano anche dei genericisti, tale brevetto fu portato in ZetaCube per trasferirlo ad un altro partner che fosse disposto a dar vita ad un’azienda a sé stante che sfruttasse tale brevetto ed evitasse problemi di litigation tra il Gruppo e i clienti genericisti. In ciò si vede che avere un approccio aperto alla ricerca significa trattare le tecnologie come dei figli: a un certo punto le tecnologie vanno lasciate andare sulle proprie gambe a prosperare per vie esterne!
Nella stessa direzione è andata la scelta di affidare lo stabilimento di Lonigo alla guida dei miei cugini, che hanno un focus di business sui farmaci generici: una scelta davvero rara nell’universo delle family company che si è rivelata vincente, visto che finora i cugini hanno assicurato una serie di buonissimi investimenti. Una scelta che si ricollega alla propensione (responsabilità) del CEO-imprenditore a ragionare su lunghi orizzonti di tempo e a concepire le partnership come condizione necessaria per la sopravvivenza.

ADM: Quali dunque i fattori-chiave per i processi OI?
EZ: Innanzitutto ci deve essere un commitment da parte dell’imprenditore-proprietario.
Inoltre, è fondamentale imparare dagli errori commessi. Quando  un  investimento non va a buon fine deve esserci una seria analisi per capire che cosa non ha funzionato. Credo molto nei post-mortem e nei case study  sui casi di insuccesso, che vanno sempre fatti non in un’ottica di “caccia alle streghe” ma con finalità educative e di crescita.

ADM: Si impara comunque anche dai successi. Cosa vi sta insegnando l’esperienza dell’Open Accelerator?
Open Accelerator
 sta arrivando alla conclusione della sua seconda edizione nell’ambito di Z-Cube, la research venture di Zambon S.p.A. Il programma è dedicato a supportare dei giovani imprenditori potenziali, ad arrivare alla validazione della propria idea nel campo delle Scienze della Vita. La prima edizione era dedicata ad aziende solo italiane, la seconda invece ha una vocazione internazionale. Anche nella prima edizione, nonostante il “limite” della scarsa diversità geografica, si è potuto osservare chele persone coinvolte hanno comunque maturato una maggior apertura nelle loro modalità di pensiero, grazie alla metodologia che li ha sfidati su delle tipologie di progetti che essi potessero sentirsi in grado di accettare.

ADM: Partnership piuttosto complesse quelle che si creano tra  grande azienda e start-up! Non è una relazione facile. Forse bisognerebbe insistere sul concetto di equilibro: chi si comporta come l’asso-piglia-tutto finirà per rimanere solo ed isolato e per perdere la propria posizione nel lungo termine, non crede?
EZ: E’ proprio così, come testimonia il fatto che sono i modelli come il nostro a funzionare con le startup: le imprese-bebè  vivono male quando sono risucchiate dalle grandi aziende, tale inglobamento le snatura. Tutta l’OI si basa su un fondamento etico di trust/fiducia e stima, e non può andare a buon fine se non c’è correttezza, trasparenza o riconoscimento delle reciproche competenze. Il tema etico e morale si deve posizionare al centro del dibattito sulla modalità di “fare impresa” ed innovazione nella società contemporanea.

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Di Alberto Di Minin & Luisa Caluri