C’è poca Italia ai nastri di partenza dell’European innovation council (Eic), la nuova iniziativa all’interno del programma quadro voluto dalla Commissione europea per rilanciare il Vecchio Continente come terra di innovatori. Nessun esperto italiano è stato invitato a far parte dell’high level group che ha contribuito alle raccomandazioni contenute nel rapporto «Europe is back: accelerating breakthrough innovation». Le 14 idee su FAST (Funding, Awareness, Scale, Talent) portate dal Commissario Carlos Moedas al World economic forum di Davos, delineano alcuni dei pilastri su cui si baserà l’European innovation council. Inoltre, c’era solo un italiano tra i 38 valutatori che a febbraio hanno intervistato le 124 aziende preselezionate per l’assegnazione di uno dei finanziamenti della nuova edizione dell’SME Instrument, lo strumento attivato dall’Unione europea per sostenere le attività di ricerca e innovazione delle Pmi europee nella cornice del programma Horizon2020. E sono due le aziende italiane a cui nei prossimi giorni sarà comunicato di avere superato questa ultima fase di verifica. A loro, così come a ciascuno degli altri 55 progetti vincitori, verrà assegnato un finanziamento di 2 milioni di euro circa. Scarso risultato per l’Italia, considerando la generosità progettuale delle nostre aziende che hanno avanzato ben 120 proposte su un totale di 1.163.
Il nostro appetito per l’SME Instrument non è una novità. Dal 2014 al 2017 le aziende italiane hanno presentato oltre 2.300 progetti. Sono 77 quelli finanziati fino ad ora. Colpisce l’alto numero di progetti presentati, valutati positivamente, ma non finanziati per esaurimento del budget assegnato. Sono ben 800 i progetti italiani in questa particolare lista d’attesa e, in 47 casi, la loro perseveranza è stata alla fine premiata con l’assegnazione di un finanziamento dopo un secondo, terzo o ennesimo tentativo.
I colloqui di febbraio rappresentano la novità del nuovo SME Instrument targato Eic. Novità fortemente voluta dalla delegazione italiana a Bruxelles, che dall’inizio del programma SME ha insistito sul fatto che non fosse appropriato assegnare centinaia di milioni di euro solamente sulla base di una valutazione in remoto: senza cioè guardare in faccia l’imprenditore proponente. Abbiamo sentito gran parte delle Pmi italiane che si sono recate (a loro spese) a Bruxelles per le interviste. Quasi tutte non erano nuove alle logiche dell’SME Instrument. Molte avevano (più volte) presentato domanda e ottenuto ottime valutazioni nelle precedenti tornate: alcune aziende avevano beneficiato dei 50mila € messi a disposizione per il Fase 1 dell’SME Instrument. I giurati erano espressione dell’industria, della finanza, degli incubatori o imprenditori essi stessi. Le domande e le interviste sono state molto diverse tra loro: questo in linea con l’idea che scopo del confronto era quello di chiarire, in 20 minuti, i dubbi su una proposta di investimento. Dubbi che potevano riguardare la tecnologia, l’accesso al mercato, il modello di business, la composizione del team. Le nostre Pmi ci hanno raccontato di aver colloquiato con membri di giurie esperte, anche se a volte non del tutto competenti rispetto al loro settore specifico o singoli giurati non esattamente preparati sulla loro proposta. In questo altro articolo pubblicato su Nòva domanica 4 marzo proponiamo alcuni consigli per gli imprenditori che si recheranno a Bruxelles per i prossimi colloqui.
Da questo magro bottino bisogna ripartire, guardando a quello che avverrà alla conclusione del pilot dell’Eic. Sono 11 infatti le future graduatorie da qui al 2020, la prossima già questo mese, e quasi un miliardo e mezzo di euro da assegnare con queste nuove regole di gioco: sulla base cioè di una singola graduatoria trimestrale, non più per ambiti tecnologici, e solamente a valle di un colloquio. Le raccomandazioni FAST di «Europe is back» e il rapporto della DG Research and Innovation del luglio scorso intitolato «Lab Fab App» ci spiegano che l’Europa potrà trovare un nuovo slancio se investirà sui suoi innovatori. In particolare, Bruxelles vuole puntare sulle startup e sulle aziende che ambiscono ad introdurre innovazioni dirompenti, caratterizzati da contenuti di cambiamento radicale. L’impresa italiana è in grado di essere protagonista in un modello del genere. Però, c’è un però. Anzi, due.
Innanzitutto, l’Europa dell’Open Innovation deve rimanere aperta a tanti modi di fare innovazione. Un’idea di business, anche dirompente, è frutto del contesto economico in cui viene proposto, dell’ecosistema che gli dà risorse e asset per svilupparsi. Ogni progetto può svilupparsi con modelli e ritmi diversi, a volte profondamente regionalizzati. L’Europa deve tenere ben presente specificità e promesse tipicamente italiane. L’impostazione dei Centri di Competenza di Industria 4.0, il sistema dei Cluster, sono strumenti di policy da cui può emergere una vitalità imprenditoriale di altissima qualità, fortemente connessa con eccellenze tecnologiche e produttive. Stando ai rapporti Netval il sistema del trasferimento tecnologico italiano è caratterizzato da operatori sempre più professionali e consapevoli del loro ruolo di interfaccia. Guardiamo ad altri contesti regionali, è utile prenderli come benchmark, ma non lasciamo che siano solo saggi innovatori di altri paesi europei a spiegare alle nostre imprese come si fa innovazione. Inoltre, ci sono controindicazioni anche per una strategia dell’innovazione troppo action-oriented, focalizzata solo sulla messa a terra del potenziale. Il professor Julian Birkinshaw nel suo libro Fast-Forward, la chiama Adhocracy: moda e malattia dei nostri tempi veloci. Imprenditori e investitori devono guardarsi dal rischio di girare a vuoto come criceti nella loro ruota, concentrandosi troppo sulle logiche di una veloce implementazione, dimenticando il valore della preparazione, delle profondità da esplorare e conoscere.
L’Europa deve sostenere le competenze ambidestre delle nostre aziende: la loro ambizione di puntare lontano con spavalderia e le loro competenze di guardarsi intorno con concretezza.
Di Alberto Di Minin e Antonio Carbone.
Pubblicato su Nòva Il Sole 24 Ore – Domenica 4 Marzo 2017.
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