#ChinaIssues con Alessia Amighini: la Belt and Road

In occasione del corso China Issues, in pieno svolgimento presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa da marzo a giugno, #Fuoriclasse pubblica ChinaIssues ovvero una serie di interviste ai relatori del corso. Nelle scorse settimane abbiamo ospitato gli interventi Francesca Spigarelli sulle industrie culturali e creative in Cina, di Georges Haour sull’innovazione, di Kerry Brown su “Grand View: the new era of China” , di Plinio Innocenzi sulla ricerca scientifica in Cina e di Daniele Brombal sul ruolo dell’urbanizzazione.

 

Venerdì 15 giugno ci sarà l’intervento di Alessia Amighini, Co-head dell’Osservatorio Asia dell’ISPI e Professore Associato di Economia presso l’Università del Piemonte Orientale, sulla Belt and Road Initiative

Che cos’è la Belt and Road Initiative?

La cosiddetta Nuova via della seta – Belt and Road Initiative (BRI)  si propone di creare un grande continente eurasiatico connesso via terra e via mare. Anche se la versione cinese si riferisce a due sole direttrici principali – una continentale attraverso l’Asia centrale e il Medio Oriente, e una marittima che collega il Mediterraneo all’Oceano Indiano – in realtà, secondo Stratfor Intelligence, sono previsti almeno sei corridoi di intermodalità, che abbinano mare e terra: la Transiberiana e i corridoi attraverso Kazakhstan, Iran, Turchia, Pakistan, oltre che quelli per Indocina, Bangladesh, India e Myanmar. Dietro “l’aura romantica – e pacifica – della leggendaria Via della seta”, ci sono ingenti risorse finanziarie veicolate attraverso il Silk Road Fund (40 miliardi di dollari) e la Asian Infrastructure Investment Bank (100 miliardi di dollari), entrambe iniziative cinesi destinate a finanziare gli investimenti per realizzare BRI.
Qual’è la strategia di Xi Jinping dietro questo progetto?

Gli obiettivi geo-economici dell’iniziativa vanno però ben oltre quello della riduzione dei tempi attraverso il miglioramento delle rotte marittime e lo sviluppo di nuove vie commerciali sulla terraferma. Le «nuove vie della seta» si prefiggono infatti di tessere una rete che meglio colleghi l’Asia all’Europa, non soltanto per facilitare i commerci cinesi verso ovest, ma anche per rendere più sicure le rotte marittime attraverso le quali avviene l’approvvigionamento cinese di risorse energetiche (gas e petrolio) dall’Asia Centrale e dal Medio Oriente. Questo passa attualmente attraverso lo stretto di Malacca (rispettivamente per il 30 e l’82 per cento del totale), una delle vie marittime più frequentate del mondo nelle rotte tra il Pacifico e l’Atlantico. Poiché dallo stretto di Malacca, sotto controllo navale statunitense dall’isola di Diego Garcia, dipende la sicurezza energetica (e non solo) di tutta l’Asia Orientale, Giappone e Corea inclusi, è particolarmente allettante per la Cina l’idea di trovare rotte alternative. Ed è proprio questa una delle motivazioni geo-strategiche principali di BRI: dirottare i corridoi di approvvigionamento lontano da Malacca, riducendo al contempo la distanza percorsa, passando per esempio dal Pakistan, che non a caso ospita uno dei primi grandi progetti infrastrutturali finanziati nell’ambito dell’iniziativa, il porto di Gwadar. Ma non è tutto qui. L’Asia Centrale, attraverso la quale dovranno passare le nuove vie della seta, è l’area del mondo con le più promettenti prospettive di sviluppo e crescita nei prossimi due decenni, già ora dipendente per i suoi consumi dalla Cina, nei confronti della quale registra un disavanzo commerciale in crescita. Ricca di risorse naturali, ma con poca capacità produttiva manifatturiera, l’area si appresta a essere lo sbocco della sovrapproduzione cinese in settori come il cemento e l’acciaio. E con le strade ferrate e le costruzioni, la Cina intende aumentare l’influenza e l’integrazione in un’area che già gravita nella sfera di influenza della Russia, con la quale è in vigore un accordo di libero scambio, le cui potenzialità sono però limitate dal fatto che le strutture produttive dei paesi membri sono molto simili tra di loro.

La Belt and Road Initiative è davvero un “game changer”?

Il potenziamento delle infrastrutture di comunicazione e di trasporto terrestre e marittimo ne ridurrà i tempi e i costi. Ma avrà anche un effetto di creazione di traffici, sia attraverso l’aumento degli scambi tra paesi che già sono partner commerciali, sia attraverso nuove relazioni commerciali che diventeranno convenienti tra stati che oggi sono tra di loro isolati o proibitivamente distanti. Poiché l’assenza di infrastrutture di trasporto è uno degli ostacoli principali al commercio internazionale, l’effetto più evidente di BRI sarà sul volume di scambi tra i paesi interessati dall’iniziativa, in molti dei quali la carenza di collegamenti internazionali è particolarmente grave, come in quelli dell’Asia centrale, tutti senza accesso al mare, tranne il Pakistan. La letteratura economica che ha analizzato le determinanti dell’intensità delle relazioni commerciali bilaterali e dell’accesso dei singoli paesi ai mercati internazionali ha mostrato che un fattore preponderante sono i costi di trasporto, a loro volta influenzati principalmente dalla connettività marittima e dall’efficienza logistica: insieme, le due variabili influenzano i costi di trasporto più della distanza geografica. Inoltre, l’assenza di un collegamento marittimo diretto riduce il valore dell’export di un paese del 55 per cento e ogni trasbordo aggiuntivo ne diminuisce il valore del 25 per cento. Di conseguenza, una rete di trasporto più estesa ed efficiente non potrà che avere un impatto positivo sui singoli paesi e sul commercio mondiale.

Quali sono le principali criticità di BRI e a che punto siamo con il suo avanzamento?

Circa 1.100 progetti di investimento del valore di 750 miliardi di dollari nei paesi in via di sviluppo e in transito sono in corso o sono stati annunciati, secondo un recente rapporto dell’ICBC Standard Bank.
Il settore dei trasporti e della logistica – guidato dalle ferrovie – è stato il principale destinatario di fondi, con progetti per oltre 330 miliardi di dollari annunciati, in corso o completati dal 2013, seguiti da 266 miliardi di dollari nel settore dell’energia e dei servizi pubblici. Il resto è stato distribuito nei settori dell’industria pesante, della tecnologia, della finanza, immobiliare e del turismo.

Solo in progetti energetici nei paesi BRI, la Cina ha investito circa $ 128 miliardi, secondo una ricerca dell’Università di Boston, che tiene traccia dei dati finanziari delle due banche politiche del paese, la China Development Bank e la Export-Import Bank of China. Circa la metà degli investimenti totali di energia fino ad oggi è andata alla generazione di elettricità in paesi dal Pakistan all’Ucraina. Il finanziamento è principalmente destinato a centrali a carbone in Asia e in Africa, mentre i progetti a gas e petrolio per l’esplorazione e la distribuzione dominano i progetti in Europa e Asia centrale. Finanziate anche fonti di energia dalle quali gli investitori internazionali si sono allontanati, soprattutto il carbone, la più grande fonte di energia finanziata nell’ambito di BRI, con circa 44 miliardi di dollari, ovvero un terzo degli investimenti energetici. Il petrolio segue con quasi $ 31 miliardi e il gas naturale con circa $ 27 miliardi.

A 1 anno dal Belt and Road Forum che ha adunato in pompa magna a Pechino i rappresentanti dei paesi interessati dall’iniziativa, il clima di apertura quasi incondizionata che ha lasciato la Cina al timone di alcune delle innovazioni istituzionali più significative nella governance economica mondiale dai tempi di Bretton Woods è cambiato. Con gli Stati Uniti di Trump in parziale ritiro dal multilateralismo e l’Europa più attenta agli effetti domestici dell’apertura quasi incondizionata a commercio e investimenti diretti, perplessità e scetticismo aumentano anche in altre aree del mondo circa l’impatto di BRI e i veri intenti di Pechino.

Sebbene sia sempre stato difficile attribuire all’iniziativa e a tutta la connessa sovrastruttura istituzionale e politica un obiettivo disinteressato di prosperità condivisa (“win-win”), è sempre più evidente che gli investimenti sono molto più di un’iniziativa di cooperazione economica, ma il veicolo di un ambiente strategico vantaggioso per la Cina, che porta con sé ingerenza politica, dipendenza economica e finanziaria. Negli ultimi anni la Cina ha stabilito legami più stretti con le economie emergenti dell’Africa e del Sud America, portando molte di queste nazioni a rompere i legami con Taiwan. Uno dei progetti più controversi è lo Sri Lanka, dove il governo ha firmato un accordo di leasing di 99 anni per il porto di Hambantota, non redditizio, ma situato lungo una trafficata corsia di navigazione dell’Oceano Indiano, insieme a un terreno per lo sviluppo di una zona di libero scambio, a una società controllata da capitali cinesi, in un accordo osteggiato da residenti e monaci. La Cina ha stipulato accordi commerciali per un valore di 390 miliardi di dollari con i paesi che partecipano a BRI nei primi quattro mesi del 2018, una crescita del 19,2% su base annua. Gli investimenti non finanziari della Cina in questi paesi sono aumentati del 17,3 per cento rispetto allo stesso periodo di un anno fa a 4,67 miliardi di dollari e il volume di affari dei progetti in uscita è arrivato a 24,2 miliardi di dollari, in crescita del 27,7 per cento su base annua. Inoltre, la Cina ha tenuto il primo round di negoziati sull’accordo di libero scambio (FTA) con Mauritius e il secondo turno di colloqui con l’FTA con il Pakistan. Ha inoltre firmato un patto di cooperazione economica e commerciale con l’Unione economica eurasiatica. Entro la fine di aprile, la Cina aveva costruito 75 zone di cooperazione economica e commerciale lungo i paesi della cintura e della strada con un investimento complessivo di 25,5 miliardi di dollari.

In questo contesto, è difficile credere alle parole del ministro cinese degli esteri, secondo cui la Cina non sta giocando alcun gioco geopolitico, guardando alle modalità con cui i progetti targati BRI si stanno sviluppando, con priorità in aree di importanza strategica, dall’Asia centrale al Sudest asiatico, dal Medio Oriente all’Africa occidentale. I progetti portuali della Cina all’estero includono attività dal duplice uso civile-militare, è elevata l’influenza del partito comunista attraverso il coinvolgimento di società statali cinesi e il controllo attraverso partecipazioni azionarie o leasing a lungo termine. Inoltre, la mancanza di trasparenza e di aspettative di redditività attesa degli investimenti rende gli stessi estremamente rischiosi. Le banche statali hanno prestato miliardi di dollari a centinaia di progetti in paesi in cui la maggior parte degli investitori temono anche solo di entrare. Un’analisi Bloomberg News lo scorso ottobre ha mostrato che di 68 nazioni in Cina figurano come partner di BRI, il debito sovrano di 27 è stato classificato come spazzatura, o inferiore a investment grade secondo le prime tre società di rating internazionali. Altri 14, tra cui l’Afghanistan, l’Iran e la Siria, non sono stati valutati o hanno ritirato le loro richieste di rating. Inoltre, Questi progetti sono in luoghi di grande rischio politico e commerciale in cui i sistemi giuridici sono incerti e la cultura legale e commerciale pure. Secondo l’Hong Kong International Arbitration Center, il numero di casi gestiti da partiti provenienti da nazioni BRI è salito del 77% a 124 nel 2017.

Infine, BRI creano il potenziale per problemi di sostenibilità del debito in alcune delle economie più deboli del mondo, secondo recenti analisi del Center for Global Development. I progetti infrastrutturali hanno un impatto marginale altissimo sul rapporto debito estero/PIL in alcuni paesi e pertanto stanno mettendo alcuni paesi a rischio di indebitamento eccessivo, in particolare Gibuti, Kirghizistan, Laos, Maldive, Mongolia, Montenegro, Pakistan e Tagikistan. Questo crea potenziali problemi ai paesi riceventi, e di conseguenza un eccessivo potere di Pechino, oltre a quello che già esercita attraverso la dipendenza commerciale. Insieme a benessere e crescita, le nuove vie della seta costruiscono anche a una dipendenza economica e finanziaria, e quindi politica, dalla Cina.

Quali sono le opportunità per l’Italia?

L’Italia è uno snodo terminale strategico per BRI, uno dei più importanti tra i 65 paesi coinvolti. Con 477 milioni di tonnellate è il terzo paese europeo per traffici gestiti, pari al 12,8 per cento del totale (dati Studi e Ricerche per il Mezzogiorno). E il vantaggio geopolitico dell’Italia come accesso all’Europa continentale è ulteriormente aumentato dopo agli ingenti investimenti cinesi nel Pireo (i due terzi del porto di Atene sono stati recentemente acquisiti dalla cinese Cosco) diventato ormai principale hub dei commerci cinesi in Europa. Dal Pireo i container cinesi devono proseguire la loro strada verso i mercati europei più ricchi, ed è qui che i sogni cinesi diventano quanto più lucidi e concreti si possa immaginare. Tra questi, vi è per esempio l’idea di un corridoio balcanico, il Pireo-Budapest, progetto che già gli austriaci avevano ipotizzato più di un secolo fa (ferrovia Salonicco-Novi Pazar- Pest) per ottenere una via logistica sul mar Egeo nel caso di blocco dell’Adriatico. Ma il pragmatismo cinese suggerisce di guardare anche al nord Adriatico come sbocco strategico per collegare i commerci marittimi nel Mediterraneo con Austria, Germania, Italia, Svizzera, Slovenia e Ungheria, facendo leva sull’interesse dei porti del nord dell’Adriatico a proporsi come alternativa rilevante ai grandi terminali dell’Europa settentrionale.

Si possono facilmente immaginare le conseguenze ambientali che avrebbe il transito nell’Adriatico di innumerevoli porta-container da 18 Teu in su (un Teu – twenty-foot equivalent unit – corrisponde a circa 40 metri cubi ed è la misura standard di volume nel trasporto dei container Iso): lo Shanghai International Shipping Institute prevede che nel 2030 si muoveranno lungo la via della seta marittima da e per l’Europa almeno 40 milioni di Teu. Ma la frammentazione in cui versa da sempre il sistema portuale italiano rischia di portare oggi a scelte infauste dal punto di vista dello sviluppo economico del paese.
È vero che il potenziamento del sistema portuale è indispensabile per aumentare la competitività italiana: nonostante il vantaggio geografico di cui indiscutibilmente gode, l’Italia è cinquantaseiesima al mondo come qualità delle infrastrutture portuali secondo i dati del World Economic Forum e oggi molte merci sono sbarcate in porti esteri che consentono tempi più certi e una più efficace programmazione del trasporto. Ma non si può prescindere da una visione integrata a livello nazionale e il governo sembra mostrare attenzione alla questione con la recente apertura del tavolo nazionale di coordinamento delle Autorità di sistema portuale. Senonché le autorità portuali più forti sono anche le più attive nel tessere alleanze bilaterali direttamente con porti cinesi. Sebbene il nord Adriatico abbia certamente un vantaggio rispetto all’alto Tirreno, in quanto la conformazione orografica e le difficoltà infrastrutturali a causa delle numerose gallerie ferroviarie e stradali non facilitano lo sviluppo di ulteriori linee logistiche, BRI rappresenta un’occasione per tutto il paese di creare davvero un sistema integrato della portualità e della logistica italiana.

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