Eravamo una start-up ma non lo sapevamo ancora. La storia di Stefano Spaggiari e soci

Ve la siete mai presa con l’insolenza di quelle ondine rosse e verdi, che inseguono il vostro pensiero mentre cercate di esprimervi al meglio in Word?  Sono dei giudici incorruttibili. Appena digitate uno spazio o andate a capo, con la coda dell’occhio rimanete in attesa del giudizio del correttore… gli piacerà questo neologismo? La concordanza torna? Il pensiero è troppo lungo? Come: manca il verbo…?!

Ebbene: il mio grillo parlante grammaticale ha un nome e cognome: almeno per la lingua italiana. Il colpevole – o meglio uno dei colpevoli – è Stefano Spaggiari,  co-fondatore e Amministratore Delegato di Expert System. L’azienda, nata nel 1989 su iniziativa di Spaggiari e di altri due amici ingegneri incontrati all’università, ben presto si è trovata a negoziare con Microsoft la licenza per il software dedicato all’analisi grammaticale dei testi prodotti in Word.

Da quel primo successo, nel corso degli anni 90, Spaggiari e soci sviluppano e brevettano la tecnologia Cogito, che li renderà leader mondiali nel campo della ricerca semantica. Da febbraio di quest’anno, l’azienda è quotata alla Borsa di Milano e l’obiettivo è continuare a trovare nuove applicazioni per estrapolare intelligence da una miriade di documenti, pagine web, tweets rilevanti per il cliente.

Ho intervistato Stefano Spaggiari qualche settimana fa. Siamo partiti dalla storia di Expert System, ma abbiamo anche discusso di analisi semantica, di big data e di libri.

Stefano, raccontami la storia della tua azienda.

La battuta che faccio sempre è che a quei tempi, noi eravamo una start up ma non lo sapevamo ancora!  In realtà, eravamo solo tre colleghi di università che avevano un sogno nel cassetto e si erano messi in testa di dimostrare che anche in Italia fosse possibile creare un software. A quei tempi avevamo a disposizione un mondo totalmente diverso da quello di oggi: non c’erano talent garden, incubatori, business angels.

Noi eravamo molto giovani. Senza fondi e senza avere le spalle coperte, siamo dovuti partire cercando di autofinanziarci. Di giorno facevamo cose “normali”: commesse di varia natura, corsi, vendita di hardware e software, il tutto per generare un minimo di finanziamento con un margine di profitto che consentisse di portare avanti il vero progetto, quello che sviluppavamo nel turno serale. Il nostro pallino era  coniugare la linguistica con la tecnologia.

All’inizio degli anni ’90 si trattava di qualcosa di molto strano, un’idea sviluppata solo all’interno di grandi laboratori di ricerca, tipo Xerox, oppure oggetto di ricerca universitaria. Vendere alla Microsoft è stata la realizzazione di questo nostro sogno. Abbiamo continuato con questa attività per tutti gli anni ’90 ma, con l’avvento di internet, abbiamo immaginato che in un mondo sempre più interconnesso sarebbe cresciuta esponenzialmente anche la necessità di informazioni.

Partendo dalla tecnologia che avevamo sviluppato, a cavallo dell’anno 2000 decidemmo di investire per ricavare una piattaforma completa che svolgesse analisi a vari stadi. Avevamo già la parte di analisi grammaticale, per cui abbiamo inserito l’analisi logica e, soprattutto, quella semantica per capire quale significato assumesse una parola in un certo contesto. Abbiamo realizzato una delle primissime piattaforme di analisi semantica ed a questa abbiamo aggiunto altri prodotti ed altre lingue. Man mano siamo andati a presidiare ambiti diversi su vari mercati, prima solo in Italia e poi siamo arrivati anche all’estero, partendo da Stati Uniti e Medio Oriente.”

Consideriamo  gli aspetti finanziari di queste vostre evoluzioni. Siete una start-up ante litteram; ora, però, esistono business angels e venture capitalists. Quale il vostro rapporto rispetto alle fonti esterne di finanziamento?

“Per 20 anni abbiamo vissuto del frutto delle nostre commesse e dei profitti che abbiamo sempre reinvestito nell’azienda. Siamo riusciti a crescere in maniera organica.   Avevamo buoni risultati sul mercato nazionale in cui eravamo attivi, ma un paio di anni fa abbiamo iniziato a guardare all’estero quando sul mercato domestico si sono presentati i primi problemi legati alla crisi. Negli ultimi tre anni ci siamo resi conto che potevamo provare a giocarcela meglio e che probabilmente la nostra tecnologia era la migliore disponibile sul mercato per il nostro settore. Riuscivamo ad attrarre clienti, ci relazionavamo con i nostri competitors ed abbiamo preso consapevolezza delle nostre possibilità. Abbiamo anche capito, però, che si tratta di una partita impari se non si è dotati delle risorse finanziarie adeguate. Per questo abbiamo deciso che era giunto il momento di provare ad accelerare. Sebbene avessimo richieste da fondi di private equity, abbiamo deciso di optare per la quotazione in borsa. Ora crediamo di aver fatto la scelta giusta perché il mercato ha apprezzato la nostra proposta e crediamo di potercela fare.”

Vorrei cercare di capire le esigenze del vostro cliente-tipo. Perché un’azienda dovrebbe sentire il bisogno di utilizzare sistemi di analisi semantica?

I nostri clienti appartengono a diversi settori ma hanno la caratteristica comune di essere molto grandi. All’interno di grandi organizzazioni, infatti, si genera un’ingente quantità di informazione proprio in virtù della mole di interazione con dipendenti, clienti e altri soggetti. All’inizio ci concentravamo di più sulle informazioni presenti all’interno delle aziende. Negli ultimi anni, con l’esplosione della rete e dei social media, c’è stata grande attenzione per l’esterno. Oggi più che mai è fuori dall’azienda che si vanno a cercare informazioni rilevanti.”

Gestite informazioni, dunque… mettendole in qualche modo in connessione con i processi decisionali dei vostri clienti. Ma poi sono i processi dei clienti che si adattano ai vostri strumenti o andate voi ad adattare i vostri servizi e i vostri strumenti alle particolari situazioni in cui vi trovate ad operare?

“Si tratta di un rapporto di co-evoluzione. Ti faccio un esempio. Una delle aziende con cui abbiamo un rapporto consolidato è ENI. Si tratta di un’azienda molto lungimirante, con una grande cultura della gestione delle informazioni. Ci troviamo molto allineati ed è evidente che in ENI hanno capito quanto sia importante, da un lato, valorizzare le informazioni a disposizione e, dall’altro, raccogliere altri dati relativi allo svolgimento del proprio lavoro.

Il vantaggio competitivo di un’azienda è ovviamente legato alle competenze della stessa, ma io sono convinto che, sempre di più, un’azienda sia in grado di differenziarsi anche per la sua capacità di gestire le informazioni di cui dispone o quelle che può reperire.

In altri termini, voglio dire che in un mondo dominato dai dati, al di là di ciò che si sa fare, deve esserci la capacità di governare nel miglior modo possibile le informazioni che si generano.”

Ci sono in questo tuo discorso almeno due diverse idee che vorrei approfondire. Da una parte c’è l’esigenza di inseguire un contesto che evolve, informazioni che si rincorrono, le aziende che, sempre di più sentono l’inevitabile bisogno di comprendere ed integrare nei propri processi decisionali. Dall’altra parte, però, mi stai anche dicendo che questo scenario in movimento, queste stesse condizioni mettono un’azienda nella condizione di sapersi distinguere dai concorrenti. In altri termini, la mia azienda può costruire nuovo vantaggio competitivo se è in grado, meglio di altri, di estrarre da un blog di testo i dati rilevanti delle informazioni strategiche? E’ così?

Posso dire con certezza che chi deciderà di non farlo, di non puntare sulla gestione delle informazioni, partirà da una situazione di svantaggio che probabilmente riuscirà a colmare in altro modo. I casi in cui questo riesce, però… non sono tanti!

Credo che il successo di un’azienda lo si costruisca quotidianamente e su vari aspetti, ma chi non punterà sulle informazioni sarà comunque svantaggiato. Certo, ha un senso farlo quando c’è una quantità di informazioni significativa perché è più la percezione che non il trend a fornire dati capaci di indirizzare: il big data deve essere davvero “big”! In questo caso ci sono tutte le premesse per poter fare la differenza, specie con i big data non strutturati come quelli che noi trattiamo.

Se si ha una buona quantità di dati e li si analizza con strumenti di business intelligence, l’elaborazione di dati strutturati di certo può garantire dei margini di differenziazione, ma forse limitati. Invece, nella componente testuale del dato, che è ancora non strutturata,  quella grande massa di informazioni che parla di prodotti, aziende, trend o che all’interno dell’azienda stessa racconta cose utili ai colleghi per far bene il proprio mestiere, in questo aggregato c’è la possibilità di differenziarsi enormemente rispetto alla concorrenza.”

Una domanda che mi insegue da diverso tempo, da quando cioè ho smesso di essere “in pari” con le mie email. Un tempo riuscivo a leggere tutti i messaggi sul mio wall di Facebook.. non mi sfuggiva una conversazione rilevante su Twitter, Skype, WhatsApp, Linked-In… Ma le mail arrivano ad ondate e tutti questi messaggi che si sommano e si accumulano mi fanno sentire ancora nel mezzo di un guado. Ho in testa questa idea che i sistemi a supporto della nostra personal productivity siano ancora in profonda evoluzione. Deve ancora arrivare la killer-application che ci permetterà di mettere meglio a sistema tutte le diverse informazioni e di non rimanerne travolti.

“Sicuramente sì. Potenzialmente esistono già degli strumenti per aggregare le informazioni e renderle un po’ più coerenti. Come spesso succede, gli strumenti tecnologici ci sono, ma quel che è difficile realizzare è l’utilizzo degli stessi strumenti o una loro combinazione all’interno di un mercato competitivo in cui ci sono abitudini consolidate difficili da modificare. Gli strumenti tecnologici esistono e forse serve una realtà nuova e le novità sono sempre dietro l’angolo; ma questo è il bello del nostro settore: lavorare in un ambito con qualcuno che riesca a consolidare in un unico frullatore tutte le comunicazioni e le informazioni che sono così frammentate. Il fatto che WhatsApp se lo contendessero Facebook e Google e che sia stato acquistato per quella folle cifra, indica bene la direzione in cui si sta andando: sia Google che Facebook  avevano in mente l’idea di aggregare WhatsApp ai propri flussi di informazione.

Il percorso è sicuramente in questa direzione, come si riesca a farlo con queste dinamiche commerciali o di business lo vedremo…”

… e dunque, a corollario di quanto dici, esistono ampi margini di sviluppo di nuovi processi e modalità per riconfigurare il vantaggio competitivo di un’azienda, partendo da come le persone in un’azienda comunicano tra di loro.

Ritornando all’idea stessa di comunicazione, se ci pensi la “modalità” con cui comunichiamo è secondaria, rispetto all’obiettivo, al messaggio da comunicare. E’ evidente che avere un canale unico di comunicazione è auspicabile, ma non è così.

Quello che manca è un middlelayer, una sorta di middleware informativo, totalmente aperto, su cui una terza parte utilizzi le informazioni generate. Per il momento, inevitabilmente, le informazioni di Facebook ed ora anche quelle di WhatsApp ce le ha l’azienda Facebook; quelle di Gmail le tiene ben strette Google, e via discorrendo. In mancanza di una piattaforma aperta, l’integrazione non è solamente difficile, è anche impossibile. Magari arriverà qualcuno che riuscirà a farlo.”

Ragionando sui vostri sistemi, mi vengono in mente i romanzi di Marco Malvaldi e la figura del Barrista (con due r) Massimo. Lui passa tutto il giorno ad ascoltare, ad aggregare informazioni e conversazioni che avvengono nel suo bar. Lui stesso diventa catalizzatore di informazioni, il suo bar uno strumento di intelligence. Su scala (ovviamente) diversa le vostre tecnologie hanno come obiettivo quello di estrarre un’intelligenza dalle informazioni che passano per il sistema.

È esattamente così, con un’unica differenza sostanziale. Il barista ascolta, il sistema Cogito legge! È uno strumento che legge per l’utente milioni e milioni di documenti per poi mettere a disposizione l’essenza che realmente interessa. Cogito riesce ad estrarre tutti i luoghi, le informazioni, i collegamenti più rilevanti ed essenziali e riesce a far scoprire qualcosa che mai sarebbe stata cercata dall’utente, in quanto fa emergere correlazioni e strumenti che l’individuo potrebbe non aver mai considerato. Bella l’analogia con il barista, ma a me rimane in testa l’idea dell’estrazione del shale oil. Come queste risorse sono intrappolate nella roccia, allo stesso modo le informazioni sono intrappolate all’interno di una massa di parole. Noi siamo quelli che vanno ad estrarre le informazioni da quelle parole.

Sta tornando di moda il concetto di artificial intelligence. Si tratta di un’idea che si è evoluta moltissimo nel corso di circa 20 anni: dalla prima ondata di intelligenza artificiale, a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, ad oggi, noi stiamo presidiando uno degli aspetti fondamentali per questo trend e cioè le componenti di linguaggio e comprensione. A differenza però di chi si occupa di computer intelligence, noi mettiamo in mano al decisore le informazioni giuste affinché sia lui ad essere creativo. Gli individui restano più intelligenti dei nostri strumenti, ma hanno più limiti fisici dettati anche soltanto dai tempi o dalla capacità di memorizzazione.”

Sempre parlando di libri. In un tempo in cui ci stiamo abituando a pensieri e concetti della lunghezza di un cinguettio, vuoi provare ad andare controcorrente ed a suggerirci delle buone letture da fare “cover to cover”?

“Ho letto con piacere la biografia di Steve Jobs di Walter Isaacson. È uno spaccato di vita che va al di là del successo, un libro da cui quest’uomo esce anche ridimensionato rispetto alla sua immagine pubblica ed idolatrata. È stato un uomo che ha sbagliato molte volte ma ha anche avuto sempre la possibilità di ricominciare. Il secondo libro è la storia di Amazon, One Click, di Richard Brandt. Ho trovato particolarmente interessante leggere della passione per il cliente, per il quale si fa tutto lasciando da parte qualunque cosa.

Trovo particolarmente stimolante leggere le biografie, non idolatrate, di questi fuoriclasse dei nostri tempi. Sono persone che partono dal nulla per arrivare al massimo. Si tratta di geni, certo, ma da questi libri si comprende che c’è anche tanta improvvisazione nei loro successi e che bisogna anche sbagliare e tentare perché prima o poi andrà bene!”

Grazie Stefano! Ottima chiacchierata, al solito i vostri commenti sono sempre benvenuti. Lasciateli qua.