L’infrastruttura di ricerca dell’Università della Calabria, aperta e all’avanguardia

Immaginate di poter fare come Alice nel paese delle meraviglie, o come i protagonisti del film degli anni ‘60 “Viaggio allucinante”: diventare estremamente piccoli per un’ora – grandi quanto un batterio – e poter viaggiare all’interno di un corpo umano alla ricerca di malattie da curare. Oppure, di avere una vista così acuta da poter decifrare quanto scritto in papiri antichi, fragilissimi e ancora arrotolati. Possono sembrare esempi molto distanti da ciò che svolge STAR – l’infrastruttura di ricerca complessa, centrata su una sorgente di raggi X innovativa e istituita presso l’Università della Calabria – eppure non è così. Di questi utilizzi e della storia affascinante che ha visto protagonista questo progetto, abbiamo parlato con Riccardo Barberi, coordinatore scientifico di STAR, e con Raffaele Agostino e Giuseppe Liberti, rispettivamente direttore tecnico-scientifico e responsabile della comunicazione.
STAR è stata creata negli ultimi dieci anni presso il polo calabrese e presenta una lunga serie di caratteristiche che la rendono un caso unico nel suo genere, a partire dal fatto che sia stata realizzata all’interno di un’università. «È raro che le università concentrino risorse su singoli obiettivi, come fanno invece i centri di ricerca: si tende piuttosto a distribuire le risorse su tutti i gruppi di ricerca di un ateneo» dice Barberi. Nel caso calabrese, invece, si è deciso di andare controcorrente, proponendo un progetto ambizioso capace di attirare fondi, recuperati in maniera competitiva su bandi nazionali, che altrimenti non sarebbero arrivati al polo universitario. «I nostri progetti si sono classificati tra i primi a livelli nazionale, competendo con quelli di altri istituti di ricerca».

La scommessa è stata vinta e parte del merito va riconosciuto anche alla generazione di docenti che ha preceduto Barberi, Mauro Ghedini e Roberto Bartolino, i quali già quindici anni fa posero la questione di creare attrattori oggettivi per evitare la provincializzazione dell’Università della Calabria, mantenendo al tempo stesso la solida la rete di relazioni già costituite, come quelle con il CNR, l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare e l’Elettra Sincrotrone Trieste. L’idea fu quindi quella di creare un’infrastruttura di ricerca, mettendo insieme competenze di fisica, chimica e ingegneria in modo da creare qualcosa che potesse avere un impatto sia nazionale che internazionale. «In collaborazione con l’Università della Calabria e il Consorzio Nazionale Interuniversitario per le Scienze Fisiche della Materia è nata l’idea di costruire qualcosa che permettesse di studiare meglio i materiali a partire dai laboratori che avevamo già, ma che non erano organizzati in rete per creare servizi» dicono i tre professori. Le prime proposte sono andate quindi verso la creazione di macchine a raggi X, seguendo una tecnologia diversa da quella del sincrotrone, all’epoca nuova e di cui ancora oggi esistono poche macchine al mondo. «Siamo riusciti a inserirci nel primo programma per infrastrutture di ricerca italiane, ottenendo un finanziamento di circa 15 milioni di euro su una richiesta di 30». Ecco sorgere il primo problema: il progetto poteva essere avviato, ma non c’erano i fondi per poterlo portare a compimento. «Dopo un periodo di vuoto, sempre insieme all’Università della Calabria, siamo riusciti a entrare nel secondo bando per le infrastrutture di ricerca, dove abbiamo ottenuto un altro finanziamento di 17,5 milioni». La seconda fase del progetto è stata così completata tra il 2019 e il 31 dicembre 2023, avendo comunque svolto interessanti collaborazioni nella fase precedente alla chiusura dei lavori.

«Il progetto di upgrade è stato inserito nell’ambito delle Scienze della Vita, ma STAR permette investigazioni non distruttive in molti campi: dal biomedicale alla meccanica avanzata, dai materiali per l’energia a quelli strutturali o dei beni culturali». L’apertura dell’infrastruttura agli utenti è poi una delle caratteristiche più importanti di questa realtà. Essa avviene dopo una valutazione della qualità della proposta che gli utenti fanno, non essendo STAR un posto dove si porta un materiale da analizzare e al termine del processo viene fuori l’analisi scritta e standardizzata, ma operando alla frontiera delle ricerche sui materiali. Oltre a rappresentare un servizio per l’utenza, il fatto di essere aperti è un vantaggio per l’evoluzione della struttura stessa, cosa che le ha permesso di avanzare in varie direzioni. «Vogliamo sfatare il mito per cui è noioso fare servizio: i problemi posti da colleghi archeologi, petrologi o biologi marini ci hanno permesso di ragionare su problemi molto diversi e interessanti dal punto di vista della fisica di base».

Come si diceva in apertura, i campi di applicazione della tecnologia messa a punto da STAR sono estremamente vari. «Il centro ha competenza sui materiali, ma la parola materiali comprende qualsiasi ambito. Ciò determina attività che vanno dal campo dell’energia, all’ingegneria, ma anche ai biomateriali e al campo dei beni culturali». Le possibili applicazioni, quindi, trovano limite solo nella capacità di immaginarle, ma per dare un’idea di ciò su cui il centro è già all’opera facciamo ora due esempi. Il primo riguarda l’osservazione del cielo e vede l’interesse convergente dell’Istituto Nazionale di Astrofisica. «Partendo dalla volontà dell’Istituto di osservare il cielo a raggi X, abbiamo messo a disposizione le risorse per studiare le ottiche adatte a ottenere tali di immagini, collaborando con le aziende lombarde che producono questo tipo di lenti». Il secondo esempio riguarda invece gli sviluppi futuri che hanno come obiettivo il rimpicciolimento della macchina, per poterla portare ovunque, soprattutto negli ospedali. «Le TAC si fanno già adesso, ma hanno dei limiti, primo tra tutti il fatto di non poterne fare troppe per non esporre i pazienti a eccessive dosi di raggi X. La nostra tecnologia permette di ottenere risultati di analisi migliori di quelli che si ottengono oggi, emettendo un decimo della dose o anche meno. La risoluzione che queste macchine permettono, infatti, va al millesimo di millimetro: ciò significa avere la possibilità di realizzare una diagnosi precoce, senza procedere a estrazione di materiale biologico, cosa che avviene oggi con esami come l’ago aspirato».

Di Alberto Di Minin e Norma Rosso