Nicola Redi: un anno fa partiva l’avventura di Vertis Venture 3 – Technology Transfer, il fondo co-investitto dall’European Investment Fund e CDP nell’ambito del programma-piattaforma Itatech. L’ultima volta che ti abbiamo intervistato stavi cercando finanziamenti da soggetti (istituzionali e non) e stavi stringendo i primi accordi con le università…Ad oggi la situazione come è evoluta?
La raccolta fondi è ancora in corso. Finora l’attività si è concentrata sulle valutazioni per l’investimento più che per la raccolta: ciò è stato dettato anche dalla novità e dalla peculiarità che hanno caratterizzato il nostro fondo fin dalla sua nascita.
È stato dato un messaggio importante: la costruzione di un primo portafoglio serve a dimostrare che esiste un bacino interessante su cui puntare la capacità di investimento e dimostra ai potenziali sottoscrittori che investire in Trasferimento Tecnologico in Italia si può fare e si può fare bene.
Il modello di Vertis Venture 3 e di Venture Factory è tutto particolare: come hanno reagito le università e il sistema di ricerca italiano nei confronti di questo fondo? Nel corso della chiacchierata che abbiamo intrattenuto al momento della nascita del fondo a favore del Trasferimento Tecnologico, era stato additato il rischio che una tale entità potesse essere concepita dalle Università come “un ficcanaso” fuori luogo, quasi un virus: è stato così?
In realtà, abbiamo trovato un riscontro positivo: siamo stati percepiti non tanto come “virus” ma piuttosto come un partner fondamentale per realizzare la Terza Missione delle università.
Di fatto, il nostro fondo va a coprire una duplice necessità: non solo quella finanziaria ma anche quella di competenze. Sebbene nell’ultimo anno diverse università e centri di ricerca abbiano iniziato cercare fondi autonomamente, ad oggi sempre più realtà che cercano di finanziare i propri Proof of Concept -ognuna a modo proprio-.
Se il Politecnico di Torino ha fatto da apripista, oggi abbiamo diversi altri esempi virtuosi come quelli del Politecnico di Milano, dell’università di Bergamo (U4I-University fo Innovation) e dell’università di Padova (POC collaborativi) e di ENEA. Siamo quindi ad un punto in cui diversi attori della filiera dell’innovazione italiana stanno passando da approcci “curiosity driven” a processi “market oriented”. In questa fase, così critica e potenzialmente determinante per l’intero sistema della ricerca ed innovazione pubblica, la presenza di un soggetto privato dedicato ad un’attività di finanziamento a sostegno di tali attività diventa un punto di riferimento importante.
Nello stabilire i primi accordi con le università e i centri di ricerca, vi siete riferiti a qualche modello di riferimento internazionale? Oppure è stato un processo spontaneo e dettato dall’evoluzione dei contatti e delle relazioni?
Pur consapevoli che nessun “modello”, per quanto esemplare, può assicurare gli stessi risultati se esportato e replicato in un diverso ecosistema, abbiamo provato ad esplorare ed identificare i fattori “di successo” potenzialmente trasferibili in altri contesti istituzionali.
Abbiamo studiato il MIT Deshpande Center, che ha una struttura di grant che parte proprio dal proof of concept (POC) e che prevede una struttura “a step” per i finanziamenti. Casi esemplari europei sono quelli di IP Group e Imperial Innovations. Anche ETH, dal canto suo, ha un percorso dedicato ai POC. Ognuno di questi soggetti ha declinato una diversa struttura per il “percorso” al finanziamento del progetto di ricerca soprattutto a seconda delle caratteristiche dell’ecosistema locale.
Per il nostro fondo noi abbiamo scelto di attingere diversi spunti dai diversi enti, sedendoci al tavolo anche con Netval, col quale abbiamo declinato delle linee-guida per il supporto all’investimento nella ricerca pubblica italiana.
La progettazione ha tenuto di conto del carattere sperimentale e di validazione della fase di POC, che per questa sua aleatorietà e complessità soffre maggiormente il rischio che non vi siano soggetti disponibili ad investirci: la valutazione per l’eventuale investimento si rivolge a progetti che non sono ancora costituiti in società e che implicano delle dinamiche di costituzione e di gestione di diritti di proprietà intellettuale. Iniziative di questo tipo devono tenere di conto, tra le altre cose, anche delle prescrizioni normative in materia di fondi di investimento.
Abbiamo impostato tutti gli incontri e le fasi di progettazione per lanciare, nella seconda metà di luglio, una call aperta ai POC provenienti dal mondo della ricerca italiana (il regolamento del nostro fondo ci impone, al fine di perfezionare l’investimento, di sovvenzionare solo in università e enti di ricerca con cui siano stati previamente perfezionati degli accordi specifici). Starà ai singoli enti decidere se siglare o meno un accordo (a tutela innanzitutto della riservatezza delle informazioni a cui il nostro fondo potrebbe accedere venendo a contatto con gli ambienti degli atenei stessi).
La call rimarrà aperta fino al 30 settembre: dopodichè avrà inizio una selezione a due step, con la redazione di una short list dei progetto che saranno ammessi alla fase di negoziazione successiva. Gli investimenti dovrebbero verosimilmente chiudersi per novembre.
Coerentemente con le strutture che abbiamo preso e studiato come modelli di riferimento, orienteremo i nostri investimenti con riguardo non solo al contenuto tecnologico, ma operando una scelta anche sulle persone. Per ogni operazione, una parte della somma investita sarà destinata (per un importo fino a 50’000€) allo sviluppo della tecnologia, mentre l’altra sarà diretta a permettere al Project Leader di ogni progetto di partecipare a un MBA part-time (che stiamo costruendo) con un focus sui temi di innovazione e imprenditorialità: ciò dovrebbe creare le condizioni affinché lo sviluppo della tecnologia -curato da una parte del team- vada sempre in parallelo con un lavoro di perfezionamento del modello di business.
Accanto a ciò, un altro elemento importante (che abbiamo derivato dal modello israeliano) è la forte volontà di coinvolgere aziende corporate: stiamo lavorando con grandi aziende per comprenderne le esigenze di innovazione, al fine di imprimerle nei bandi che andremo a pubblicare e di mantenere questi soggetti “on board”.
Questo perchè c’è una differenza sostanziale tra sviluppare tecnologie, prodotti o imprese: poter avere un affiancamento in termini di competenze da parte di un attore industriale sia nella parte iniziale che nelle fasi di avvio del POC è “la terza gamba” che -insieme a tecnologia e formazione- che dovrebbe rendere ancor più efficace il nostro strumento rispetto alla riuscita dei POC finanziati.
Vi siete posti qualche obiettivo? Vi siete dati delle milestone per il prossimo anno? Su quali KPI andrete a monitorare il processo durante il suo svolgimento?
Sebbene non ci siamo dati obiettivi o milestone particolari, prevediamo di investire in 8 progetti all’anno per il prossimo triennio. Rispetto al Venture Capital tradizionale che, essendo di per sè aperto a recepire ogni tipologia potenziale di investimento, si caratterizza per aspettative molto alte (attorno ai 1000 investimenti all’anno), sul technology transfer le dinamiche sono decisamente influenzate da fatto che vi sono delle trattative da perfezionare con le università. Ad oggi siamo arrivati all’80% del deal flow, che ci arriva anche perchè ci muoviamo noi per andarlo a “cercare”. Finora abbiamo ricevuto circa 170 proposte di investimento (che non sono affatto poche, se si considera che sono arrivate dopo giornate passate in colloqui con università e centri di ricerca).
Quali sono le incognite più rilevanti?
Oltre ai finanziamenti per i POC, abbiamo una linea di investimento per progetti più tradizionali: ne abbiamo già chiusi due e ad agosto dovremmo avere il terzo investimento in portafoglio (con un tasso di un investimento concluso ogni due mesi) e ciò, sebbene sia di grandi soddisfazioni, ha implicato la spendita di una quantità di tempo e di forze considerevoli.
D’altra parte, c’è anche l’ambizione di coinvolgere non solo le grandi aziende ma quelle di medie dimensioni: questo perchè ci sono tante aziende che, avendo bisogno di una tecnologia, potrebbero poi fornire il trampolino di lancio necessario che permette di generare un ritorno sull’investimento. Per il ricercatore lavorare con un cliente prospettico, partire da e per il suo bisogno è un passo critico ma necessario per fare il salto dall’approccio “curiosity driven” (poco profittevole) a quello (ben più efficace) “market driven”.
Dall’altro lato, questo progetto può e dovrebbe far comprendere l’utilità e il valore insito nei POC di progetti nati in seno all’università in particolar modo a coloro che non hanno mai progettato qualcosa per conto proprio: tutto il personale strutturato ma anche non strutturato (come i post-doc) potrebbe davvero arrivare a valutare l’opportunità di perseguire la propria attività di ricerca in parte attraverso le pubblicazioni e in parte attraverso un’attività più “applicata” ed orientata all’ottenimento di brevetti in una spin-off.
Nella tua esperienza mi hai illustrato più volte la tua posizione di “believer” nei confronti delle potenzialità insite nel contesto italiano e/o europeo. Rispetto ad un anno fa, ti senti ancora così fiducioso nelle potenzialità per l’Italia e per l’Europa di porsi da attori-chiave /cardine per lo sviluppo economico futuro?
Mi verrebbe da dire che lo sono perfino di più! Per loro natura, il mondo della ricerca e dell’innovazione si basano su dinamiche collaborative che intersecano i verticali di conoscenza e, per tale trasversalità, possono agire da tramite tra il mondo della ricerca e il mondo industriale. Sono convinto che nelle università la collaborazione può innescare dinamiche sinergiche e permettere la massima valorizzazione delle diversità culturali a favore del progresso scientifico: la storia insegna che l’abbattimento delle frontiere, il superamento delle logiche di silos e il lavoro “trasversale” permette di arrivare a risultati mai raggiunti prima.
di Alberto Di Minin e Luisa Caluri