Da dieci anni soffiano sull’Europa venti di crisi. Prima quella finanziaria, poi quella del terrorismo di radice islamica. Quindi quella dell’accoglienza dei rifugiati, infine la crisi legata alla Brexit. Ora, l’emergenza Coronavirus, un’altra questione di dimensione globale da gestire a livello europeo.
Enrico Letta, già presidente del consiglio tra il 2013 e il 2014, ora direttore della scuola di Affari internazionali della Sciences Po (l’istituto di studi politici a Parigi), continua ad essere un “inguaribile europeista”.
Nel 1998, a soli 32 anni, divenne ministro per le politiche comunitarie infrangendo il precedente record (poi ulteriormente abbassato) di Giulio Andreotti che era stato nominato ministro dell’interno nel 1954, appena compiuti i 35 anni. La conversazione con Letta nel corso delle Innovation Restart Chats organizzate nell’ambito del Master Mind della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa non poteva che vertere, in larga parte, proprio sulle questioni europee.
QUATTRO CRISI. “L’Europa – sostiene Letta – ha vissuto una serie di crisi negli ultimi dieci anni che l’hanno completamente sfidata. Dalla crisi finanziaria del 2008-12 alla crisi del terrorismo di radice islamica, che ha colpito duramente Paesi come Francia, Germania, Olanda; dalla crisi dell’accoglienza dei rifugiati del 2014-15 a quella della Brexit. Quattro crisi che hanno scosso in un decennio l’Europa ed hanno messo in grande difficoltà il tasso di europeismo di molte popolazioni. Molte hanno visto crescere l’attesa di una soluzione europea ai problemi ma, allo stesso tempo, hanno riscontrato una scarsa solidarietà degli strumenti in mano all’Europa per risolvere i problemi”.
Crisi alle quali l’Italia non è rimasta certo estranea…
“Noi italiani, tranne quella del terrorismo, le crisi le abbiamo beccate tutte in prima fila. La stessa Brexit, non tanto perché abbiamo avuto particolari situazioni economiche e commerciali, ma perché a una popolazione già sfiduciata sull’Europa è stata fatta intravedere la possibilità che ci sia un altro mondo possibile fuori dall’Unione europea e che questa sia una possibilità di successo, come la stanno raccontando nel caso della Brexit”.
CAMBIO DI FRONTE. Essere europeisti non significa, però, non saper fare autocritica.
“Lo ha capito per prima la Germania – prosegue l’ex premier – che la gestione come fu fatta allora, in cui non c’è stata solidarietà, non ha funzionato, fu un errore. Il secondo cambiamento è stato che non c’è più la Gran Bretagna a bordo: è andato via il freno più grosso. L’altra volta ricordo un asse tra Gran Bretagna, Olanda e Germania che aveva frenato qualunque tentativo di costruire una politica di reazione alla crisi che fosse una politica espansiva. Ci era riuscito soltanto Draghi, con il ‘Whatever it takes’. Con gli occhiali di oggi ci rendiamo conto ancora di più di quanto fu miope quella risposta”.
Questa volta, invece?
“Questa volta la Germania ha cambiato fronte: si è spostata dal fronte del “no” al fronte del “sì”. L’episodio che mi ha fatto capire che era cambiato tutto: quando nel primo Consiglio europeo di marzo la Merkel blocca e si comincia male, i primi a contestare la Merkel e dirle ‘devi cambiare linea’ sono i capi dell’industria automobilistica tedesca che le mandano una lettera e le dicono che se affonda l’Italia cade un terzo della produzione della Mercedes, perché il mercato è ormai talmente integrato che un terzo della Mercedes lo produciamo tra Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna. E quindi questo argomento è stato decisivo per far capire ai tedeschi che siamo tutti ormai sulla stessa barca”.
RECOVERY PLAN. Il prossimo passo è, dunque, la dibattutissima approvazione del Recovery Plan.
“Io non sono pessimista, perché tutto sommato anche i più riottosi hanno accettato la logica che sta dietro il Recovery plan. La logica – sostiene Letta – è una logica rivoluzionaria, quella di dire ‘facciamo debito insieme’, la tripla A è garantita dalla Commissione e, sottotraccia, dalla Germania. È una tripla A che possiamo usare noi, e questa è la grande novità, perché quei soldi vengono utilizzati non redistribuendoli alla pari tra tutti ma secondo il bisogno. Se mi avessero parlato tre mesi fa di logica di mutualizzazione del debito futuro non ci avrei creduto. È oltre quello che mi immaginavo. È un modo di fare gli Eurobond senza chiamarli Eurobond”.
L’attesa risposta europea è economica e sociale allo stesso tempo.
“Da una parte il piano Sure, che è la prima grande operazione europea contro la disoccupazione, ma soprattutto il piano Mes sanitario con il quale si destinano risorse sul cuore di una politica sociale sanitaria. Dall’altro il grande tema dell’economia reale, dopo l’insegnamento della crisi di dieci anni fa, quando nulla era stato fatto per l’economia reale. Il primo vero intervento di investimento sull’economia reale fu il piano Juncker, realizzato dal 2014 in poi. È stato importante, utile, un po’ farraginoso ma sicuramente buono. Questa volta, invece, la Commissione ha un capitolo reale molto innovativo e importante. Esiste perché non c’è più la Gran Bretagna, che metteva sempre il veto su queste operazioni, e la Germania ha cambiato campo”.
ESSERE EUROPEI. Coronavirus a parte, l’Unione europea è chiamata a competere sulla scena economica internazionale con Stati e macroaree.
“Dovremo rilanciare la competitività dell’Unione europea e gestirla sulla base di questa vicenda con un’attenzione ai fondamentali e soprattutto facendo grandi progetti europei. Per stare a livello di cinesi e americani serve agire a livello europeo, altrimenti le cose fatte dalle singole nazioni non bastano. L’Europa non è una potenza militare, ma dev’essere in grado di gestire la sua leadership nel mondo. E soprattutto faccia autocritica. Se non c’è una forte leadership di tutta l’Europa unita non riusciremo a convincere gli altri Paesi a fare quello che devono, ad esempio per il climate change”.
Un altro punto sul quale l’Europa può differenziarsi dal resto del mondo è legato alla centralità della persona.
“La seconda bandiera è quella del cosiddetto umanesimo tecnologico: la sfida tecnologica è altissima, noi come europei siamo indietro perché americani e cinesi ci hanno già battuto o ci stanno battendo. Ma c’è una questione dirimente: chi è il centro del progresso tecnologico? Chi è il proprietario dei dati personali che stanno all’interno di tutto ciò che è legato all’attività di innovazione e moltiplicazione di informazioni legate allo sviluppo tecnologico? C’è la filosofia americana nella quale è il mercato alla fine il proprietario; c’è quella cinese statalista e legata ad un aspetto securitario in cui lo Stato è di fatto il pilota e il proprietario; e la nostra, quella europea, in cui la persona è il proprietario, è il centro. A me sembra un tema attorno al quale vale la pena unirsi. Gli alfieri di uno sviluppo tecnologico basato sulla centralità dei diritti umani e sulla persona”.
A questo proposito, come si sta muovendo la commissione Von der Leyen?
“La Von der Leyen ha dimostrato rapidità perché nell’organizzazione della sua Commissione ha dato due bandiere da alzare e rendere visibili al mondo intero. E le ha assegnate ai suoi due vicepresidenti politici: la Vestager come capofila di tutta la partita tecnologica e Timmermans come capofila di quella per la sostenibilità”.
SGUARDO A SUD EST. Non esistono, però, solo i competitors Stati Uniti e Cina. Esistono anche regioni che, per dimensioni, sono paragonabili all’Unione europea e possono rappresentare, per gli Stati membri, un importante mercato di sbocco. Uno di questi è formato dai Paesi del Sud est asiatico.
“Il Sud est asiatico – ritiene Letta – è molto interessante per motivi geopolitici. Per adesso lì i Paesi stanno rispondendo nel modo migliore alla crisi. Ha un mercato fatto di 600 milioni circa di consumatori, è formato da dieci Paesi e non vi è un ‘elefante nella cristalleria’. L’Indonesia è il più grande di tutti, vero, ma non vuole esserne il leader. In fondo, quegli Stati ricordano un po’ le dimensioni dei vari Paesi europei. Stanno lavorando ad un abbassamento delle frontiere interne per costruire accordi commerciali interni. La Piaggio ha scelto il Vietnam, la Ducati la Thailandia per fare dei grandi investimenti che hanno avuto grande successo lì. Sono aree nel mondo in cui noi europei possiamo avere una marcia in più ma dobbiamo combattere con una concorrenza che è soprattutto cinese, giapponese, coreana e ovviamente americana”.
Di Alberto Di Minin e Nicola Pasuch