Innovation under the radar: come si sviluppa l’innovazione in Africa?

Negli ultimi tempi, la parola innovazione è entrata a far parte del nostro vocabolario quotidiano. Tanti sono gli studi che dimostrano come l’innovazione, nelle sua varie forme, sia lo strumento per raggiungere il progresso tecnico, scientifico e sociale. Tuttavia, l’attenzione dell’accademia si è spesso unicamente concentrata sull’analisi del mondo sviluppato, dove i casi di innovazione sono facilmente identificabili sotto la luce del sole. La professoressa Fu Xiaolan, ordinaria di tecnologia e sviluppo internazionale all’università di Oxford, propone invece uno studio sull’innovazione nel continente africano, l’innovazione “sotto i radar”, nascosta, che sfugge alle maglie del sistema.

Innovation under the radar: The Nature and Sources of Innovation in Africa” è un libro pubblicato da Cambridge University Press nel novembre 2020. Il volume, al momento disponibile solo in inglese, fa luce sulla natura e sulle diverse fonti di innovazione in Africa, andando ad esaminare sia le spinte che le barriere alla sua diffusione. Attraverso una indagine quantitativa condotta in Ghana e in Tanzania accompagnata da diversi casi studio svolti in Ghana e in Kenya tra il 2013 e il 2015, il libro fa emergere le modalità con cui si sviluppa l’innovazione in Africa sia nel settore formale, ma soprattutto anche in quello informale. Le innovazioni in Africa sono per lo più innovazioni “nascoste”, per la maggior parte di natura incrementale, che si basano principalmente sull’apprendimento e miglioramento organizzativo e individuale.

Perché leggere il libro

Il libro presenta un lavoro unico nel suo genere. Grazie ad una attenta analisi, Fu e gli altri autori che l’hanno supportata nella stesura riescono ad offrire un panorama dettagliato su un mondo finora poco analizzato. Molti autori affermano che studiare l’innovazione in Africa ha poca rilevanza se prima non si risolvono altri problemi come la sicurezza in ambito alimentare, sanitario e geopolitico.  Fu invece dimostra come l’innovazione nel contesto africano dovrebbe essere vista non come il fine ultimo dello sviluppo, ma come il mezzo attraverso il quale risolvere anche alcune delle questioni più critiche e quindi sopravvivere.

Del libro abbiamo apprezzato molto le diverse lenti attraverso le quali l’analisi viene presentata, da quella settoriale a quella istituzionale, passando per una disamina delle competenze e delle barriere che giocano il ruolo principale nella partita della diffusione dell’innovazione in Africa. Di seguito analizziamo le parti salienti che di più ci hanno colpito.

Lo scenario generale: Ghana e Tanzania

Il libro, nella sua parte introduttiva, presenta i macro-temi che verranno trattati ed offre una panoramica della situazione economica di Ghana e Tanzania, i paesi principali in cui la ricerca di Fu si concentra. Gli argomenti vengono poi divisi in tre blocchi. Il primo riguardante la natura e le fonti di innovazioni interne africane, il secondo si concentra su come l’innovazione straniera prenda piede nel continente e il terzo parla della diffusione delle tecnologie emergenti.

In generale, l’analisi dimostra come le strutture istituzionali incomplete, obsolete o sottosviluppate rappresentino gli ostacoli principali alla diffusione dell’innovazione nel contesto africano. Nei paesi sviluppati, queste strutture sono invece spesso assodate e gli ambienti economici e politici sono per lo più stabili. In Africa, l’instabilità politica e l’incertezza economica scoraggiano gli investimenti stranieri e quindi la possibilità di una buona diffusione dell’innovazione. Inoltre, in Africa come nelle altre realtà in via di sviluppo le risorse economiche sono scarse e non vi è un vero e proprio sistema nazionale o regionale dell’innovazione, rendendo quindi le interazioni tra pubblico e privato molto complesse.

In particolare, Ghana e Tanzania presentano situazioni economiche ancora instabili, nonostante un costante miglioramento negli anni. L’agricoltura rimane il settore di sviluppo principale, anche se diversi nuovi settori come quelli delle materie prime, delle fonti di energia e delle costruzioni stanno via via aumentando il loro valore. Entrambi i paesi importano di più di quello che esportano e le recenti liberalizzazioni hanno anche permesso un aumento degli investimenti esteri. Il cuore della questione, e del libro, è che questi paesi sono caratterizzati da un doppio sistema economico. Accanto a quello formale e facilmente misurabile, c’è quello informale, nascosto, che però racchiude un network di imprese egualmente fondamentali per lo sviluppo economico.

L’innovazione under the radar: il ruolo delle imprese informali

L’analisi e le differenze tra le imprese formali e quelle informali (under the radar) vengono particolarmente approfondite nel capitolo quattro. Oltre il 90% delle imprese formali hanno dichiarato di innovare, mentre la percentuale scende intorno all’80% per quelle informali. La differenza principale, tuttavia, risiede nelle innovazioni di processo. Mentre il 59% delle imprese formali applica innovazioni di processo, solo 37% di quelle informali fa lo stesso. Nelle aziende informali della Tanzania il più alto tasso di innovazione si riscontra nel management (81%) seguito dal marketing e dall’innovazione di processo (76 e 74% rispettivamente), mentre l’innovazione di prodotti o servizi ha registrato il tasso di innovazione più basso (60%). Per le aziende formali, i tassi più elevati di innovazione si trovano nelle innovazioni di processo, di prodotto e di gestione (rispettivamente 86, 84 e 83%), mentre la percentuale più bassa di aziende (70%) si occupa di innovazioni di marketing. Questi modelli di innovazione nelle imprese tanzaniane rendono evidente che le imprese informali innovano maggiormente nei tipi di innovazione non tecnologici, mentre le imprese formali innovano maggiormente nei processi ad alta intensità di tecnologia. Tuttavia, è bene sottolineare che, nella stragrande maggioranza dei casi, si parla di innovazioni incrementali. Infatti, le innovazioni “new to the world” sono sotto il 2%. Infatti, i risultati mostrano che la maggior parte delle innovazioni in atto in Ghana e Tanzania sono basate sull’apprendimento, senza le tradizionali attività di ricerca e sviluppo che normalmente osserviamo nelle aziende dei paesi industrializzati. L’indagine a livello aziendale indica che la maggior parte di queste innovazioni sono nuove per le aziende, con solo una piccola percentuale di innovazioni che possono dirsi nuove per il paese. L’imitazione di altre imprese, con o senza modifiche, è un modo per diventare innovativi. Le cause dietro questi processi risiedono sostanzialmente nella mancanza di risorse finanziare e competenze individuali. Concentrare quel poco che si ha, in termini di soldi e di capitale umano, in innovazioni incrementali che comunque ti permettono di inserirti e sopravvivere nel mercato è la strategia preferita dagli imprenditori ghanesi e tanzaniani.

Open Innovation, il ruolo delle università e l’importanza delle policies

Nel capitolo cinque Fu cerca anche di capire in che misura il sistema di innovazione africano sia aperto. L’open innovation, così come definita da Chesbrough nel 2003, è un paradigma che presuppone che le imprese possono e devono utilizzare le idee esterne così come le idee interne all’impresa per produrre innovazione. Questo concetto può essere applicato in diversi modi e nel caso africano Fu identifica un network relativamente propenso all’apertura e alle collaborazioni, ma che potrebbe puntare al rafforzamento di queste sinergie per un miglioramento strutturale dell’intero sistema di innovazione. Le imprese della Tanzania sono relativamente più aperte di quelle ghanesi. Interessante sottolineare, tuttavia, come alcuni esempi di imprese ghanesi vadano in controtendenza rispetto a questi dati. In particolare, Fu riporta il caso di alcune imprese stabilite in un cluster industriale del settore agroalimentare che grazie alla collaborazione con alcune università straniere sono riuscite a migliorare alcuni dei loro prodotti e anche a diminuire gli sprechi di materie prime. In generale, però, gli scambi di conoscenza avvengono principalmente tra i partner nella catena del valore e le università hanno un ruolo marginale.

Non a caso, nel capitolo otto, Fu identifica nel rafforzamento delle collaborazioni tra università e imprese una delle policy chiave che i governi africani dovrebbero implementare per puntare al miglioramento complessivo del sistema. Il problema di fondo che emerge, tuttavia, è che le policies nei contesti ghanesi e tanzaniani sono spesso applicate male e risultano inefficaci. Il nocciolo della questione è l’asimmetria informativa. Infatti, le imprese molte volte non sanno nemmeno dell’esistenza di alcune iniziative del governo e, quando lo sanno, è molto difficile per loro seguire il giusto iter burocratico, senza contare che le possibilità di entrare a far a parte dei progetti sono molto scarse. Secondo Fu, quindi, non solo è necessario migliorare in generale il sistema di implementazione, ma soprattutto puntare a rafforzare il capitale umano degli imprenditori, in modo da renderli in grado di operare meglio all’interno del sistema di innovazione locale e favorire gli scambi di conoscenza.

Il caso ghanese sul ruolo dell’imprenditorialità femminile sviluppata nel capitolo sette ruota proprio attorno al concetto di capitale umano, relazionandolo alla questione di genere. Il risultato sorprendente sta nella relazione tra genere, capitale umano e innovazione. Gli autori dimostrano che il ritorno marginale di un maggior livello di istruzione sulle performance aziendali sia sostanzialmente più elevato per le imprese gestite da donne. Quindi, gli autori suggeriscono come le politiche volte a stimolare l’imprenditorialità di alta qualità potrebbero avere ancora più successo se incorporassero un focus sulle donne, sulla loro istruzione e su come bilanciare il rapporto lavoro-famiglia puntando su una migliore parità di genere.

Il rapporto con il resto del mondo

La seconda parte del libro si concentra sul ruolo degli scambi di conoscenza a livello internazionale. I risultati evidenziano come la maggior parte delle tecnologie innovative nascano da imprese locali, ma al secondo posto emergono Cina e India, che risultano quindi essere i principali partner stranieri iniettori di tecnologia. In generale però, le collaborazioni a livello regionale piuttosto che internazionale risultano più fattibili per le imprese africane, sia per ragioni di convenienza economica, sia per la facilità di interazione. Sappiamo infatti come il dislivello nello stock di conoscenza e il divario culturale con le multinazionali straniere sia ampio. Inoltre, in mancanza delle giuste capacità di assorbimento e in considerazione del fatto che l’innovazione in Africa è per lo più incrementale e di sopravvivenza, i grandi cambiamenti che gli stranieri potrebbero innescare sono di difficile applicazione nel contesto locale.  È anche per questa ragione che lo scambio principale tra le imprese straniere e quelle africane riguarda per lo più innovazioni di tipo manageriale e organizzativo.

Il salto tecnologico: nuovi percorsi di progresso

Ci sentiamo infine di segnalare il capitolo dodici, che grazie all’analisi di un caso studio in Kenya, mostra come a volte il contesto africano possa permettere il leapfrogging, ovvero procedere per balzi e saltare alcuni step tecnologici. Nel caso specifico, gli autori evidenziano come il sistema di trasferimento di denaro e pagamenti elettronici attraverso la piattaforma digitale M-PESA (“M” sta per “mobile” e Pesa è lo swahili per “soldi”) per dispostivi cellulari si sia diffusa in maniera capillare in Kenya. Nonostante alcuni freni iniziali da parte soprattutto del sistema bancario, l’applicazione di pagamento elettronico, grazie anche alla mancanza di una precedente diffusione delle carte di credito o debito, ha permesso anche a chi non possedeva un conto in banca di sfruttare questa nuova tecnologia. Interessante notare come il sistema bancario che inizialmente osteggiava l’iniziativa, sia poi diventato un attore principale per lo sviluppo delle politiche applicative necessarie a permettere una maggiore diffusione dell’applicazione. La creazione e diffusione di questa tecnologia è stata anche possibile soprattutto grazie alla collaborazione di tante piccole organizzazioni guidate dall’impresa leader del progetto. Safaricom è stata infatti in grado di integrare con successo un gran numero di piccoli attori disaggregati nella catena di progettazione e fornitura di M-PESA attraverso un processo di sperimentazione imprenditoriale che ha anche permesso di colmare un gap sia tecnologico sia normativo.

Una nuova prospettiva

Il libro propone sicuramente un tema attuale, ben presentato e ricco di dettagli e spunti interessanti. Tuttavia, alcuni capitoli sono più tecnici di altri e forse poco si prestano ad una divulgazione ad un pubblico ampio. Per gli addetti ai lavori, invece, è senza dubbio un must-read che dimostra ancora una volta come l’innovazione sia qualcosa di strettamente regionale e che non possono esistere soluzioni uguali per tutti. Inoltre, il libro pone le basi per tutti coloro i quali vogliano esplorare l’innovazione in altri contesti africani (ricordiamo che il libro si concentra solo su Ghana, Tanzania e Kenya) e ricordare a tutti che l’Africa è un continente vasto, variegato e pieno di peculiarità.

Di Alberto Di Minin e Jacopo Cricchio