Nella società della conoscenza, il talento si erge come il pilastro del vantaggio competitivo nazionale. Secondo l’OCSE, le carenze strutturali nel sistema di istruzione superiore e nella ricerca fondamentale limitano la capacità dell’Italia di capitalizzare pienamente i possibili incrementi di produttività derivanti dai rapidi cambiamenti tecnologici. Il tasso di giovani che non sono impegnati in attività di studio, lavoro o formazione (NEET) è uno dei più elevati tra i paesi OCSE, influenzando negativamente lo sviluppo delle competenze necessarie per il mercato del lavoro a lungo termine. Inoltre, la percentuale di giovani laureati è tra le più basse dell’OCSE, superiore solo a quella del Messico. In un’economia della conoscenza altamente interconnessa e specializzata è fondamentale monitorare i flussi di cervelli. I cervelli, o meglio i talenti, non “fuggono” ma indubbiamente circolano alla ricerca del loro più ottimale impiego. Per l’Italia il disquilibrio tra competenze acquisite e cedute è inquietante. Tra il 2012 e il 2021, i dati ISTAT ci confermano che più di un milione di persone hanno lasciato l’Italia, con un quarto di loro laureati. Gli emigrati tra i 25 e i 34 anni ammontano a circa 337.000, di cui più di 120.000 erano laureati. In contrasto, nello stesso intervallo di tempo, circa 94.000 giovani della stessa fascia d’età sono rientrati in Italia. Tra questi solo 41.000 laureati. Possiamo dunque parlare di un saldo negativo di circa 79.000 giovani laureati italiani che contribuiscono all’economia della conoscenza in altri Paesi dell’Unione Europea.
In Italia, l’emigrazione giovanile non sembra compensata da un ritorno equivalente in età più matura, indicando una significativa fuga di cervelli. Nonostante alcuni miglioramenti negli ultimi anni, la qualità delle università italiane, benché misurata in modo non esauriente dal posizionamento di alcune università tra le prime 200 a livello mondiale, rimane inferiore rispetto ad altri grandi paesi europei come Francia, Germania e Regno Unito. I risultati insoddisfacenti nel settore dell’istruzione superiore sono parzialmente attribuibili a finanziamenti insufficienti, con una spesa per studente circa il 30% inferiore alla media OCSE.
Questo disallineamento tra le competenze acquisite e quelle richieste ci pone davanti ad un problema di politica industriale: siamo interessati a diventare esportatori netti di competenze e talenti o vogliamo che in Italia si creino condizioni interessanti per sviluppare e valorizzare il capitale umano?
Durante l’evento tenutosi a Roma il 17 aprile 2024 sul tema “Talent Management: Una sfida per le imprese e la pubblica amministrazione“, organizzato dalla Fondazione COTEC, si è focalizzata l’attenzione sull’attrazione, lo sviluppo e la ritenzione dei talenti, esaminando i pro e i contro nella gestione delle figure altamente specializzate.
Nel corso dei lavori, Ernesto Ciorra, Advisory Board Member della MIT Technology Review Italia e della Fondazione Pubblicità Progresso, ha posto l’accento sulla difficoltà di integrare talenti tecnologici nei processi aziendali. Questi talenti, spesso introspettivi e con competenze altamente specializzate, faticano a emergere nei tradizionali processi di selezione. Ciorra, in particolare, ha sottolineato che la trasformazione delle abilità tecniche in soft skills rappresenta una sfida cruciale per le aziende che desiderano sfruttare appieno il potenziale innovativo di questi individui.
Sulla stessa lunghezza d’onda, Marco Hannappel, Area Vice President per il sud ovest dell’Europa di Philip Morris, ha illustrato un approccio formativo che potrebbe rispondere a questa esigenza. L’azienda propone un modello educativo flessibile e personalizzabile, simile al sistema universitario, che permetta ai talenti di sviluppare e diversificare le proprie competenze, mantenendo l’adattabilità necessaria in un mercato in continuo cambiamento. Questo metodo, in effetti, facilita l’integrazione dei talenti tecnologici, rispondendo alla sfida evidenziata da Ciorra.
Riccardo Viale, Professore di Behavioral Sciences and Cognitive Economics, Università Bicocca di Milano, ha collegato invece le dinamiche di mercato all’instabilità economica che influisce sulle decisioni dei giovani, spingendoli verso carriere dinamiche e significative, anche all’estero, sottolineando l’importanza dell’upskilling e del reskilling continuo, come risposta alle crescenti esigenze di un ambiente lavorativo in evoluzione e come soluzione per mantenere il talento aggiornato e competitivo.
Luigi Nicolais, Presidente di COTEC e Materias S.R.L., ha posto l’accento sull’importanza di ambienti lavorativi che promuovono l’autonomia e il lavoro di squadra, essenziali per l’espressione ottimale dei talenti. Nicolais ha enfatizzato come tali ambienti non solo elevino la produttività e l’innovazione, ma stabiliscano anche un terreno fertile per il mantenimento e la crescita dei talenti all’interno delle aziende, rispondendo così alle necessità di formazione continua evidenziate da Viale.
Queste osservazioni sollevano una questione cruciale: quali politiche aziendali e pubbliche sono necessarie per mettere al centro della competitività del nostro paese il talento italiano? Quali strategie sono indispensabili per creare un ambiente in cui i talenti non solo rimangano, ma prosperino? La risposta a queste domande sarà determinante per il futuro economico e sociale dell’Italia.
Di Alberto Di Minin e Vincenzo Maria Lapiccirella