Innovazione e Tradizione. Dialogo con Antonio Messeni Petruzzelli

Antonio Messeni Petruzzelli è docente di ingegneria gestionale presso il Politecnico di Bari. Con Cristina Marullo, mia collega presso la Scuola Superiore Sant’Anna, abbiamo discusso dei suoi temi di ricerca. Ecco il risultato di questa conversazione.

Antonio, hai scritto due paper molto interessanti con Tommaso Savino: “Search, recombination, and innovation: Lessons from the haute cuisine” sulla rivista Long Range Planning e “Reinterpreting tradition to innovate: The case of the Italian haute cuisine” sulla rivista Industry and Innovation. Da qui partiamo per capire da dove nasce l’idea di combinare innovazione e tradizione.

L’idea di mettere in relazione due concetti apparentemente antitetici, quali tradizione e innovazione, nasce dalla opportunità per il nostro Paese di valorizzare risorse tangibili e intangibili basate sulla tradizione che ancora oggi rappresenta un punto di forza su scala internazionale. Lo sviluppo di soluzioni innovative nasce sempre da un processo di ricerca, che riguarda non solo funzionalità ma anche significati e valori. Negli studi che hai citato siamo partiti dall’alta cucina, ma è solo un esempio: esistono molte esperienze che dimostrano come l’innovazione possa nascere da un processo di ricombinazione di conoscenze, competenze, design e valori culturali tradizionali, che caratterizzano in maniera distintiva e inequivocabile un’impresa oppure un territorio. In questo modello di interazione tra cultura e innovazione, la tecnologia diventa di fatto uno strumento attraverso cui gli elementi della tradizione vengono attualizzati, così da renderli adatti alle esigenze dei mercati e dei consumatori.

Molto interessante il caso dell’alta cucina. A volte la ricerca in campo economico e manageriale viene accusata di rimanere troppo “alta” di non sporcarsi le mani con i casi aziendali. Mi pare di capire che invece il tuo approccio è quello di rendere concreto il concetto di innovazione & tradizione. Se ti dicessi di dirmi su due piedi il nome di un’azienda che secondo te incapsula bene questo concetto?

Certamente Aboca, impresa italiana leader nella produzione e commercializzazione di prodotti a base di erbe medicinali per la salute e il benessere. Fondata nel 1978 dalla visione dell’attuale presidente Valentino Mercati, conta oggi circa 800 dipendenti e un fatturato superiore ai 100 milioni di euro. L’impresa affonda le sue radici nel territorio stesso in cui è ubicata, la Valtiberina in Toscana, area votata già dal 1200 alla produzione di piante officinali. Lo stesso nome dell’impresa mette in evidenza questo forte legame: secondo l’etimologia il termine Aboca deriva da “Abiga”, antico nome dialettale toscano del Camepizio, antica pianta medicinale dalle proprietà depurative. Il processo di innovazione  parte sempre dalla cosiddetta “ricerca storica”, ossia da una meticolosa e attenta analisi di testi storici al fine di identificare antichi rimedi per le varie problematiche di salute, tuttora presenti. Tale attività di ricerca ha luogo all’interno dell’Aboca Museum e nella Bibliotheca Antiqua, che contiene più di 1000 libri pubblicati tra il ‘500 e i primi del ‘900 dedicati al valore terapeutico delle piante officinali, e vede in filosofi, storici e bibliofili le figure chiave. Il processo di innovazione continua all’interno dei laboratori di ricerca scientifica, dove queste piante medicinali vengono ricombinate con le più moderne soluzioni biotecnologiche così da valorizzarne ulteriormente le proprietà e renderle in linea con le moderne esigenze e standard. Ogni prodotto è di fatto il risultato del connubio tra ricerca storica e ricerca scientifica. Anche in questo caso, stiamo parlando di eccellenze, ma non isolate: Youyou Tu, premio Nobel per la medicina nel 2015, ha basato alcune delle sue scoperte su ricerche che affondano le radici nella medicina tradizionale cinese, per l’esattezza in una ricetta di ben 1600 anni prima.

Leggendo i tuoi lavori, vedo molta vicinanza al tema dell’innovazione nelle “family firm”, filone di ricerca di cui anche io mi sono occupato recentemente. Secondo te un’azienda a conduzione familiare può meglio di altre farsi guidare dalla tradizione nel suo processo innovativo?

La dimensione familiare è certamente fondamentale in questi discorsi. Le imprese familiari denotano una particolare capacità di preservare conoscenze e valori tradizionali, nonché innestarli nelle logiche di business e nelle strategie di innovazione. In un recente articolo pubblicato su Academy of Management Perspectives abbiamo messo in luce la centralità della natura familiare come driver per facilitare lo sviluppo di soluzioni innovative basate sulla tradizione, analizzando realtà imprenditoriali quali Apreamare, Beretta, Lavazza, Sangalli e Vibram. È comunque possibile trovare esempi di successo anche al di là del contesto del family business: il connubio tradizione-innovazione è infatti una strategia spesso adottata anche da grandi gruppi multinazionali. Basti pensare al crescente numero di imprese farmaceutiche attualmente impegnate nello sviluppo di medicinali basati sull’utilizzo di erbe e piante appartenenti alla tradizione popolare (Glaxo & Smith, Pfizer, Merck & Co., AstraZeneca, Aventis), oppure al settore dell’automotive, dove realtà come FCA group, Volkswagen e BMW sviluppano sempre più nuovi modelli che recuperano elementi del passato.

Spiegami perché la tradizione è utile come guida dei processi innovativi. Ne avevo già  parlato in questo blog raccontando la storia del consorzio della Pietra Piasentina. Se ti chiedessi, dammi le “tre caratteristiche” salienti… di un processo innovativo indirizzato dalla tradizione. Quali inoltre i limiti di questo approccio?

I vantaggi principali che si possono trarre dall’adozione di una strategia di questo tipo riguardano innanzitutto la possibilità di riutilizzare soluzioni e idee ampiamente testate nel passato ma con un potenziale innovativo ancora del tutto non espresso, soluzioni generalmente più affidabili, con un conseguente risparmio in termini di costi e tempi di sviluppo. In secondo luogo, innovare attraverso la tradizione vuol dire adottare una risorsa fortemente idiosincratica, ancorata in uno specifico contesto imprenditoriale o geografico, e pertanto difficile da imitare e replicare altrove. Infine, sviluppare nuovi prodotti o processi basati su elementi della tradizione ne accresce il carattere distintivo e la legittimità sul mercato, riducendo quindi la diffidenza dei consumatori verso soluzioni innovative. Più che di limite parlerei di rischio. Ricercare nel passato non significa rimanere ancorati a vecchie tecniche e soluzioni, quanto piuttosto fare leva sulla tradizione per creare nuove architetture di prodotto e di processo attraverso l’innovazione tecnologica. È grazie all’integrazione di “vecchio” e “nuovo”, “passato” e “presente” che si possono rendere competitive e attuali conoscenze, competenze e valori tradizionali.

L’innovazione è al centro delle politiche industriali. Anche per l’Italia possiamo dire che è sempre di più così. Su questo blog mi piace scrivere di come le politiche per l’innovazione debbano partire dallo sviluppo e l’applicazione di scienza e tecnologia. Da scienza e tecnologia, sostengo con forza, possono arrivare le nuove leve di vantaggio competitivo per questo paese. Ma se dovessimo invece partire dalla “tradizione” per costruire una politica industriale? Provi a convincermi che una politica industriale debba mettere al centro il binomio tradizione e innovazione?

Ci sono diversi aspetti critici da considerare. Aspetti su cui costruire delle politiche di intervento. In primis le aziende debbono fare uno sforzo per identificare quale tradizione valorizzare, che sia dell’impresa stessa o del territorio in cui operano, e su quali elementi della stessa focalizzare il processo di innovazione. Non è detto, infatti, che tutti gli aspetti che contribuiscono a caratterizzare una tradizione siano per così dire spendibili all’interno di un processo innovativo. Tale fruibilità è fortemente dipendente dal mercato di riferimento e dall’impresa che la utilizza.

Qui entra in gioco il secondo aspetto critico. Per attuare una strategia di innovazione basata sulla tradizione occorre interiorizzare la tradizione stessa all’interno dei confini dell’impresa, facendola diventare di fatto parte integrante della cultura aziendale. A tal fine, la creazione di archivi storici e musei può giocare un ruolo determinante, divenendo questi luoghi dei veri e propri laboratori volti alla diffusione della cultura della specifica tradizione all’interno dell’organizzazione e all’avvio di processi di ricerca e innovazione. Una volta incorporata, tale tradizione va reinterpretata, così da rendere prodotti e processi figli della tradizione ma anche moderni, attuali, in termini di funzionalità o anche di significato. Questo, come ci mostrano i vari casi, può essere realizzato integrando la tradizione con tecnologie provenienti anche da ambiti industriali distanti rispetto a quelli in cui l’impresa opera.

Tale processo di ricombinazione richiede multidisciplinarietà, così da favorire il dialogo tra elementi del passato e soluzioni tecnologiche d’avanguardia. È anche importante sottolineare che per incoraggiare questo tipo di innovazione ci sia bisogno di politiche industriali idonee ad una maggiore tutela del nostro patrimonio di tradizioni ed alla loro diffusione su scala internazionale.

Chiudiamo con i consigli per la lettura. Dammi due o tre punti di riferimento per approfondire questo tema di ricerca.

L’uomo artigiano” di Richard Sennet” e “Le radici del futuro” di Thomas Friedman. Senza poi voler essere autoreferenziale, posso anche suggerire il libro che ho scritto insieme a Vito Albino “When tradition turns into innovation”, in cui abbiamo cercato di analizzare le strategie di innovazione adottate da imprese nazionali e internazionali che hanno visto nella tradizione la principale fonte di vantaggio competitivo.