ChinaIssues: Franco Mazzei e il metodo GeoStorico per capire la Cina di Xi Jinping

Dopo aver ospitato l’intervento di  Francesco Silvestri sull’intelligenza artificiale e di Lala Hu sull’internazionalizzazione dei brand cinesi, venerdì 1 marzo abbiamo parlato di trasformazioni geopolitiche con Franco Mazzei, Professore Emerito all’Università degli Studi di Napoli L’Orientale e docente  di Asian Studies all’Università LUISS Guido Carli. 

Professore Mazzei, come sta cambiando la propensione all’estero della Cina?

E’ ormai fin troppo chiaro che l’avvento al potere della cosiddetta Quinta Generazione, rappresentata da Xi Jinping leader carismatico e decisionista, segna una svolta decisiva nella politica estera di Pechino. Non solo è stata abbandonata l’accorta politica di buon vicinato e di basso profilo perseguita tenacemente da Deng Xiaoping, ma con Xi è radicalmente mutata la stessa geopolitica della RPC che da continentale e regionale è diventata marittima e globale.

Quel che è interessante sottolineare è che questo radicale mutamento si accompagna al recupero della concezione di relazioni internazionali propria della tradizione sino centrica: il cosiddetto Ordine Mondiale Cinese. Questo modello fu sostituito dalle potenze imperialistiche europee nella seconda metà del Diciannovesimo secolo con il modello vestfaliano, basato sullo Stato-nazione che è ormai eroso dal basso e dall’alto e inadeguato in un mondo che, pur diviso politicamente e culturalmente, è globalizzato dalle tecnostrutture economico-finanziarie.

A differenza di quanto avviene in Occidente, la leadership cinese è consapevole che i macro-fenomeni che connotano il mondo di oggi sono irreversibili, che però devono essere controllati attraverso una qualche forma di governance globale. Il riferimento non è solo alla globalizzazione ma anche alla digitalizzazione, intesa non come mero processo di trasformazione di dati da analogici in numerici ma come un particolare processo di acquisizione di conoscenze e comprensione della realtà riduttivamente binario e lineare. In questa complessa e problematica prospettiva va inquadrato il mega-progetto della Nuova Via della Seta (OBOR/BRI), lanciato da Xi appena giunto al potere, con cui si mira a innervare l’Eurasia con infrastrutture, preferendo le “connessioni” alle vecchie Muraglie e ai nuovi muri.

Quali sono i fattori che condizionano la politica estera cinese?

I principali fattori specifici che in Cina condizionano (ma non determinano, ovviamente) la politica estera sono essenzialmente due.

Primo, un fattore storico-culturale, il cosiddetto “sviluppo ortogenetico”: uno sviluppo continuo della civiltà cinese che nell’arco della sua storia multi millenaria non ha avuto significative cesure dal punto di vista, geografico, antropologico, culturale (scrittura, lingua, confucianesimo…), a differenza di quanto avvenuto in tutte le altre Grandi Civiltà.

Il secondo fattore specifico è la percezione geopolitica della centralità, da cui deriva la visione sino-centrica del mondo. Una chiara manifestazione di questa percezione geopolitica è l’autodenominazione della Cina come ZHONG-GUO, che in cinese significa “Paese del Centro” (del mondo) e non “Paese di Mezzo” (in mezzo a che?) come per pigrizia linguistica si usa ancora dire oggi in Italia in modo concettualmente e filologicamente errato.

Mentre la consapevolezza dello “sviluppo ortogenetico” del Paese incide profondamente sul processo identitario (su cui in Cina da decenni esiste un vivace dibattito), la percezione “geopolitica della centralità” spinge a dare una connotazione chiaramente sino-centrica alla globalizzazione “sognata” da Xi Jinping. Ma questo implica anche che Pechino per realizzare il “sogno cinese (zhongguo meng) dovrà superare una serie di contraddizioni interne, e in primo luogo proprio il superamento del principio fondamentale del sistema vestfaliano, ovvero la domestic jurisdiction di cui finora è stata l’alfiere.

Cosa dobbiamo aspettarci sulle relazioni Sino-americane?

L’imperativo geostrategico della Cina di Xi è la protezione della “frontiera marittima”, che tradizionalmente invece era considerata sicura giacché il mare era visto come una barriera invalicabile. In realtà, oggi la maggiore minaccia militare che la Cina deve fronteggiare proviene proprio dal mare: dalla presenza della potente flotta statunitense che pattuglia il Pacifico Occidentale. Poiché la Cina è fortemente dipendente dal commercio marittimo e gli USA con la collaborazione dei suoi alleati regionali sono in grado di soffocarla economicamente bloccando i suoi porti e lo stretto di Malacca, ne consegue che il primario interesse militare di Pechino è impedire o quantomeno rendere problematico tale blocco. Ci vorranno alcune generazioni perché la Cina possa disporre di una marina militare in grado di competere con quella statunitense. Pertanto, ora l’obiettivo è rendere i costi di un eventuale blocco talmente alti da convincere Washington a desistere da tale iniziativa.

Con l’obiettivo di lungo periodo di costruire una flotta d’alto mare competitiva, per ora la strategia di Pechino è centrata sulla costruzione di missili antinave che possano essere lanciati da terra e da sottomarini e sullo stoccaggio di mine navali per indebolire le capacità della Marina statunitense soprattutto nell’eventualità di un conflitto per la questione taiwanese.

Negli ultimi anni, il Mar cinese meridionale (MCM) è diventato una issue cruciale per l’equilibrio della regione, essendo tra l’altro l’area più militarizzata del mondo. Ma soprattutto è il teatro del confronto tra la Cina (che mira all’egemonia regionale) e gli Stati Uniti (che intendono continuare ad esercitare nella regione il ruolo di “equilibratori esterni”). La strategia di Obama nota come Pivot to Asia rispondeva a questa logica. Con riferimento al MCM, gli strateghi di Pechino parlano di una “difesa attiva” (strategicamente difensiva ma operativamente offensiva), secondo cui in caso di conflitto Pechino difenderebbe la frontiera strategica con una “guerra locale in condizioni di alta tecnologia e informatizzazione.

L’opinione più diffusa tra gli analisti è che il confronto tra Cina e USA è per ora teorico-diplomatico e che tale resterà. Ma non manca chi con maggior realismo ammonisce che la “trappola di Tucidide” – ovvero il dilemma della sicurezza – è nascosta dietro l’angolo.

Quali sono le implicazioni per l’Italia e l’Europa dalla politica estera di Xi Jinping?

Va premesso che tra i paesi europei l’Italia, dopo la Francia, è stata la più attenta a tenere aperto un dialogo con la RPC prima del riconoscimento ufficiale da parte di Roma nel 1970. Tra i più fervidi sostenitori dell’apertura alla Cina ricordiamo politici della caratura di Pietro Nenni, di Giorgio La Pira, e imprenditori come Enrico Mattei. Quindi, la relazione bilaterale tra Italia e Cina ha buone radici nel nostro Paese. Da parte Cinese, la percezione dell’Italia più diffusa negli ultimi anni è quella di un paese da sempre amico (i nomi di Marco Polo e di Matteo Ricci sono popolarissimi in Cina) e cruciale per il progetto OBOR, segnatamente nella versione marittima. Saper cogliere questa opportunità storica è compito della classe dirigente italiana, che purtroppo non appare in grado di elaborare utili prospettive.

È invece possibile intravedere, sul piano normativo, una prospettiva molto stimolante per quanto riguarda la relazione sino-europea. Nella nuova struttura del mondo di oggi, che come s’è detto è unificato economicamente ma diviso politicamente e culturalmente, appare di grande interesse il fatto che il divide atlantico tra UE e USA diventa sempre più ampio, mentre sembra sempre più accentuarsi la convergenza tra UE e RPC. Non è un caso che sui maggiori temi di politica mondiale (dal problema del riscaldamento climatico alla questione iraniana) Bruxelles sia più vicina a Beijing che non a Washington. E questo avvicinamento mi appare di buon auspicio per un mondo migliore. Ultima annotazione ma non meno importante, la convergenza tra le due periferie dell’Eurasia eviterebbe, tra l’altro, la marginalizzazione dell’Europa.

 

Di Alberto Di Minin e Filippo Fasulo