Quando Henry Chesbrough ha introdotto il concetto di Open Innovation nel suo ormai celebre libro del 2003, John Seely Brown, Chief Scientist e Direttore del Palo Alto Research Center di Xerox lo definiva, nella sua prefazione, come un modo di “innovare l’innovazione”. Un paradigma fondato sulla condivisione di idee, risorse e competenze tecnologiche e – soprattutto – sul cambiamento del modello di business che rappresentava, al momento della sua nascita, “a hard lesson for research departments of large corporations to learn”.
È stato infatti il continuo confronto tra teoria e pratica a consentire non solo la nascita del modello di Open Innovation ma anche, nel tempo, il suo sostanziale arricchimento. Grazie alla pratica manageriale il concetto è infatti in continua evoluzione, e rivela caratteristiche specifiche e nuove sfumature ogni volta che viene osservato in un nuovo contesto. Se è dunque chiaro a studiosi e imprenditori cosa non è Open Innovation, l’elenco dei fattori che consentono di avere successo facendo Open Innovation aumenta ogni giorno e deriva dalla osservazione attenta dei suoi risultati.
Il rapporto della Fondazione COTEC 2021, realizzato in collaborazione con Enel Foundation e l’Università Luiss Guido Carli e presentato nell’evento online a cui abbiamo assistito lo scorso 24 febbraio, parte da questa intuizione: se è ormai chiaro che il paradigma dell’Open Innovation rappresenta una grande opportunità per le aziende eccellenti, è importante capire come questo si traduca in un contesto, quello italiano, ricco di singolarità ed ampi contrasti, soprattutto quando si parla di innovazione.
Per capirlo, il rapporto affianca agli indicatori “tradizionalmente” usati per misurare l’adozione di strategie di Open Innovation (cosa fanno le imprese), i suoi presupposti (quali fattori influenzano la capacità delle imprese di fare Open Innovation) e i risultati (in termini di performance), una serie di “storie di innovazione” raccontate da soci della Fondazione – Enel, Eni, Intesa Sanpaolo, Leonardo e Tim – che in prima persona raccontano come si fa Open Innovation nelle grandi imprese Italiane.
Il primo elemento che emerge è la varietà di iniziative e di soluzioni, spesso molto diverse tra loro, e che rappresentano best practice riconosciute a livello nazionale ed internazionale: dalle collaborazioni con le startup del sociale in Enel, agli hackathon di Leonardo con l’Aeronautica Militare, all’Innovation Center di Intesa Sanpaolo, ai TIM Open Labs, dove l’Open Innovation si coniuga con la ricerca corporate. Questi approcci diversi hanno però un fattore comune: quello della creazione di un contesto interno “aperto”, in cui si privilegiano fattori ambientali e culturali, legati soprattutto alla gestione delle risorse umane e al clima organizzativo, un contesto che deve accogliere l’innovazione e riuscire a farla propria.
Nelle parole di Andrea Prencipe, Rettore della LUISS, la realtà italiana sembra essere stata capace di trasformare un paradigma teorico (quello dell’Open Innovation) in un principio organizzativo e gestionale, che in quanto tale implica un cambiamento nella cultura e nei processi, coinvolgendo in primo luogo le persone.
I risultati tecnici del rapporto, basati su una indagine condotta su un primo campione di 200 imprese e presentati da Carlo Napoli (Enel Foundation) e Valentina Meliciani (LUISS) rafforzano queste affermazioni. Cinque punti, in particolare, spiegano quali siano i fattori chiave dell’Open Innovation nelle imprese italiane di successo, i fattori che distinguono, cioè, le aziende ad elevata performance (in termini di ritorno sul capitale investito) rispetto a quelle a medio-bassa performance: “the best vs. the rest”.
Primo: appare innanzitutto evidente che gli indicatori “tradizionali” di apertura delle aziende, basati sulla varietà (il numero) di interlocutori esterni con cui l’impresa si relaziona nella propria attività di innovazione (external search breadth) o sulla intensità di queste relazioni (external search depth) non siano da soli sufficienti a spiegare le differenze tra imprese in termini di performance. In modo simile a quanto accade in altri paesi, le imprese italiane mostrano una certa vivacità in termini di numero di collaborazioni con altri attori (in media, otto) ma, tra queste, poche (in media, tre) si caratterizzano per “elevata intensità” in termini di scambio di conoscenze. Nel campione analizzato, solo il 30% delle imprese fa poi esplicito riferimento al termine Open Innovation. Come era noto da tempo, fare Open Innovation non vuol dire dunque semplicemente aprirsi a idee e conoscenze esterne, e ciò è ancor più vero nel contesto italiano.
Secondo: le iniziative di Open Innovation sono adottate, nelle aziende di successo, contestualmente ed in modo complementare a specifiche pratiche organizzative volte a migliorare il contesto ambientale e sociale interno (innovation climate). Le imprese ad elevata performance si distinguono dunque da quelle a medio-bassa performance per aver accompagnato la loro “apertura” verso l’esterno con iniziative complementari di “apertura” all’interno, che coinvolge in modo particolare le risorse umane. Le iniziative più virtuose – quelle che secondo i dati del rapporto generano risultati migliori in termini di performance – sono legate alla creazione di squadre autonome ed eterogenee, all’interno delle quali si sperimenta la comunicazione e la condivisione di idee.
Terzo: mettere in pratica con successo i principi dell’Open Innovation richiede la costruzione di un linguaggio comune. Se tradizionalmente il networking, i contatti personali, gli scambi ripetuti e un gergo tecnico condiviso hanno supportato la diffusione dell’innovazione nelle imprese italiane, questi ancora oggi rappresentano elementi cruciali su cui far leva nell’ambito di strategie di innovazione aperta. Lo dimostra il fatto che processi formalizzati (monitoraggio e controllo di gestione, sperimentazione delle idee, IP management) sono molto meno usati dalle aziende di successo. Le pratiche più “virtuose” (in termini di performance) sono dunque quelle non formalizzate e non legate ad incentivi pecuniari come, ad esempio, le iniziative volte ad incentivare la creatività individuale, la possibilità di esprimersi e condividere le proprie idee, a rafforzare la capacità di lavorare in gruppo.
Quarto: l’Open Innovation nelle imprese italiane non è solo un gioco di squadra, ma un gioco (difficile) giocato da squadre di talento. Le aziende con performance elevata si distinguono infatti nettamente rispetto a quelle con performance medio-bassa su tutti gli indicatori relativi alla qualità delle competenze delle risorse umane. Le aziende eccellenti presentano valori sistematicamente migliori sul numero di addetti high skilled (come, ad esempio, i laureati in discipline STEM), che fanno parte di team dedicati all’Open Innovation o che, più in generale, partecipano attivamente alle iniziative di innovazione dell’impresa, indipendentemente dalla loro funzione.
Quinto: le aziende italiane eccellenti, quelle che cioè coniugano con successo Open Innovation e performance, non si limitano a “mettere in pratica” l’Open Innovation, ma accompagnano tali strategie con iniziative di cambiamento organizzativo. Non bastano infatti la volontà (l’intenzione strategica) e lo sviluppo di adeguate competenze interne a garantire il successo in termini di performance. Occorre porre in essere iniziative che facciano leva in modo complementare sulla cultura aziendale e sull’apprendimento di tutta l’organizzazione, tenendo alto il coinvolgimento delle risorse umane a tutti i livelli. Si tratta di una azione sistemica che consente all’intera azienda di evolvere verso un modello di innovazione nuovo e ad elevato potenziale in termini di redditività.
Tra i vari risultati di questo studio, sebbene non ancora concluso, ce n’è uno assolutamente degno di nota. Come sottolinea Henry Chesbrough, le iniziative volte a mettere in pratica il modello di Open Innovation – a scambiare dunque idee e conoscenze rilevanti con l’ambiente esterno per accelerare i processi di innovazione – non si sostituiscono, dal punto di vista strategico, agli investimenti in risorse umane ed in particolare alle iniziative volte a potenziare le competenze distintive dell’azienda. L’Open Innovation non è infatti un modo per sostituire competenze interne all’azienda con competenze esterne quanto piuttosto una leva che consente alle imprese di entrare in contatto con conoscenza esterna, assorbirla e sfruttarla per accrescere il valore delle proprie risorse e competenze. Senza adeguati investimenti in risorse interne, ed in primis in capitale umano, molte aziende falliscono nel tentativo di cogliere i benefici delle strategie di Open Innovation. Sebbene non sia per niente semplice stabilire la direzione della relazione causale tra Open Innovation e performance, la chiara complementarità di questi elementi, che emerge anche dal rapporto, rappresenta un punto di partenza fondamentale. Coltivare le proprie risorse interne e metterle a disposizione di iniziative che favoriscano lo scambio di conoscenza verso obiettivi comuni è la chiave di ogni iniziativa di Open Innovation.
Secondo Carlo Papa, direttore di Enel Foundation, è importante, da un punto di vista di policy, giocare la carta della convergenza. I segnali di “apertura” delle aziende eccellenti del nostro paese vanno amplificati ed estesi a interi sistemi imprenditoriali e accademici per consentire di “cambiare il passo” in termini di competitività del nostro paese.
Un ottimo terreno di sperimentazione a questo proposito è sicuramente in Italia, quello dell’ICT. Come emerge chiaramente dal rapporto, i fattori alla base del successo delle iniziative di Open Innovation trovano terreno fertile in una parte importante delle piccole imprese dei settori informatica, comunicazioni ed elettronica di consumo, realtà naturalmente portate alla collaborazione e aziende in cui i valori degli indicatori di “innovation climate” risultano particolarmente elevati.
Ci sono vari motivi, secondo Marco Gay, Presidente di Anitec – Assinform, per cui l’Open Innovation rappresenta un pezzo importante della crescita delle imprese ICT in Italia, nonché uno degli elementi alla base della flessibilità che queste hanno avuto nel reagire alla recente crisi. Innanzitutto, l’Open Innovation consente alle imprese di essere veloci e flessibili, sfruttando la combinazione di conoscenza scientifica (prodotta dalle università) e conoscenza di mercato attraverso iniziative e progetti di collaborazione. L’Open Innovation favorisce dunque per queste imprese l’efficienza dal punto di vista produttivo, dal momento che dà la possibilità di investire sulle proprie risorse garantendo tempi certi e una corretta pianificazione dei costi e dei rischi.
Le iniziative di Open Innovation rappresentano inoltre, secondo Gay, un importante punto di partenza per la crescita di intere industrie: per le piccole imprese, che tipicamente competono in modo non strutturato, si aprono infatti occasioni di crescita attraverso fusioni e acquisizioni che derivano da precedenti progetti in collaborazione con medie o grandi imprese della stessa filiera. L’Open Innovation rappresenta dunque parte integrante del loro sperimentarsi sul mercato e, allo stesso tempo, racchiude un enorme potenziale di crescita per linee esterne, facendo leva sul talento dei giovani.
La grande sfida di oggi è portare su questo terreno l’industria cosiddetta “tradizionale”. Cosa ci manca? “In questo Belpaese che ho cominciato a conoscere anche io, sottolinea Henry Chesbrough, quello che servirebbe sarebbe un po’ di più fiducia tra gli attori del trasferimento tecnologico. Le aziende non si fidano delle università, le università non si fidano delle aziende. Potrebbe essere più armonioso il rapporto tra piccola e grande impresa”. Caro Professore: “fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio!” rispondono al papà dell’Open Innovation in coro tanti (troppi) operatori del nostro Bellecosistema. Chissà, forse maggiori studi come quello condotto da Meliciani e Napoli potranno contribuire a far crescere la consapevolezza che “insieme è meglio!”
Di Alberto Di Minin e Cristina Marullo.