Ultimo appuntamento della seconda edizione di China Issues. Venerdì 10 maggio la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa ospita Simone Corsi, Institute Manager del Manchester China Institute, Associate Member del Manchester Institute of Innovation Research e Senior Research Associate, Centre for Global R&D Management.
Il suo intervento si è incentrato sull’’innovazione in Cina e sull’esperienza del Regno Unito nella cooperazione scientifica con la Cina.
Nei precedenti settimane abbiamo ospitato gli interventi di Francesco Silvestri sull’intelligenza artificiale, di Lala Hu sull’internazionalizzazione dei brand cinesi, di Romeo Orlandi sulla Cina nell’economia internazionale di Franco Mazzei sulla geopolitica della Cina, di Michele Bonino sull’urbanizzazione, di Guido Giacconi sul piano Made in China 2025 e di Paolo Farah sulle controversie commerciali.
Simone, qual è lo stato dell’innovazione in Cina?
Come noto, la Cina ha avuto un progresso formidabile in termini di capacità innovativa del proprio sistema paese. La combinazione di policy governative mirate e ben pianificate con la propensione al cambiamento e all’adozione di nuove tecnologie da parte dell’industria e della popolazione cinese, ha fatto sì che la Cina diventasse il secondo paese al mondo in termini di spesa in R&S e il primo per numero di richieste di brevetti. Questo sforzo, combinato con un attento sguardo al futuro, ha creato una Cina d’avanguardia in tecnologie del futuro come per esempio in settori come Artificial Intelligence e Fintech. Non dobbiamo dimenticare però come la Cina, per sua stessa ammissione, manchi ancora di capacità e competenze nel proprio sistema di ricerca di base, elemento essenziale per sperare di salire nell’olimpo dei grandi paesi innovatori.
Che impatto ha l’attuale contesto internazionale sulla cooperazione scientifica con la Cina?
Sono due, secondo me, i riflettori sulla Cina nel contesto internazionale. Da una parte la guerra commerciale con gli USA scaturita dall’accusa americana secondo cui la Cina ha rubato proprietà intellettuale alle imprese americane per decenni. È indubbio che la Cina sia passata (e vi sia ancora in parte) attraverso un processo di imitazione di tecnologie straniere tipico di economie in via di sviluppo. È innegabile però che il paese stia ottenendo un discreto successo nello smarcarsi da quel modello, per esempio rinforzando il suo sistema di proprietà intellettuale. Per esempio, la Cina è stata, nel 2016, il paese con il più alto numero di casi civili (152.072) di violazione di proprietà intellettuale e il 98% di questi riguardano diatribe tra imprese cinesi. Un segnale di come la protezione della proprietà intellettuale sia sempre più parte della cultura imprenditoriale cinese, creando quindi un contesto più favorevole alla cooperazione scientifica e internazionale. La “guerra” tra USA e Cina richiama però alla mente tentativi di egemonia politica che le due parti stanno cercando di affermare in un contesto internazionale. Questo è legato a iniziative cinesi come la Belt and Road che comportano importanti investimenti infrastrutturali in paesi ospiti e che, insieme al recente caso di Huawei, mette in risalto alcuni rischi di sicurezza nazionale. Sebbene talvolta il dibattito a questo riguardo porti a un ingiustificato panico di massa, non è da sottovalutare l’evidente rischio di ingerenza che una presenza finanziaria e infrastrutturale cinesi in settori chiave possa rappresentare. Questa dimensione porterebbe invece a frenare la cooperazione scientifica internazionale.
Che strumenti sta adottando il Regno Unito per gestire la cooperazione scientifica con la Cina?
Sebbene con la visita ufficiale nel Regno Unito di Xi Jinping nel 2015, si sia aperta la cosiddetta Golden Era delle relazioni Cina-UK, la Brexit ha distolto non poche risorse alla politica e ai policymakers. Fino a 1-2 anni fa, il Regno Unito aveva un ottimo strumento per favorire la cooperazione internazionale in ambito innovazione con la Cina: development aid. Programmi come il Newton Fund, il Prosperity Fund e il più recente Global Challenge Research Fund hanno (avuto) il merito di mettere insieme università e aziende britanniche e cinesi per sviluppare collaborazioni di R&S. L’attuale ruolo (ed ambizione) geopolitico cinese però mal si sposa con la ricezione di finanziamenti assistenziali per paesi emergenti e la Cina ha cominciato a frenare su questo tipo di programmi di cooperazione. Basti pensare che in vista degli ultimi impegni dichiarati da Xi Jinping in ambito development aid, la Cina supererà l’Australia e diventerà il paese ad investire di più in aid in Asia-Pacific. Il modello tuttavia non cambia. Il Regno Unito finanzia collaborazioni di ricerca e innovazione con la Cina prevalentemente attraverso l’agenzia UKRI e lo fa spingendo fortemente sulla creazione di consorzi tra imprese e università di entrambi i paesi. Assicurando cioè che una componente di ricerca all’avanguardia sia accompagnata da una spinta alla commercializzazione e diffusione dell’innovazione che ne scaturisce.
Come si dovrebbero comportare università e privati nell’ambito della cooperazione scientifica?
Le università e i privati da soli possono fare poco. Ruolo ben più importante è quello dello Stato. Questo deve identificare rischi e opportunità di una cooperazione scientifica con la Cina e in base a questi sviluppare una strategia, che comprenda un adeguato fondo di finanziamento per la sua execution. Mentre imprese di grandi dimensioni (e per certi versi anche le università) riescono a farsi strada da soli nella cooperazione con la Cina, è impensabile che le PMI ottengano buoni risultati a livello aggregato se non viene loro dato supporto. Sebbene il Regno Unito abbia il vantaggio di mettere a disposizione più finanziamenti per le PMI rispetto all’Italia, entrambi i sistemi soffrono secondo me della mancanza di un sistema di supporto che vada oltre il tipico ostacolo della risorsa economica. Ci sono tanti finanziamenti per supportare missioni commerciali in Cina, ma poche risorse e supporto inadeguato per navigare la complessità del mercato cinese una volta che la palla è in gioco.
È stato un piacere avere nuovamente Simone con noi al Sant’Anna. Simone Corsi infatti ha conseguito il suo dottorato proprio alla Scuola, discutendo una tesi sulla Reverse Innovation, da cui sono stati poi estratti diversi articoli scientifici. Torna quando vuoi Simone, qua sei a casa!